Discutendo sui social network ci si può fare un’idea più precisa della realtà. Ma basta pochissimo, anche un simbolo di un partito in un angolo dello schermo, per far riemergere i nostri pregiudizi. In breve, sono queste le conclusioni di un esperimento realizzato da un team di ricercatori guidato da Damon Centola dell’Università di Filadelfia. La ricerca è stata pubblicata ieri sulla prestigiosa rivista scientifica Proceedings of the National Academies of Sciences.
Centola ha coinvolto 2400 volontari equamente divisi tra conservatori e progressisti. A un primo gruppo, i ricercatori hanno chiesto un’interpretazione di un grafico sul mutamento climatico e l’hanno confrontata con quella, basata sugli stessi dati ma scientificamente più accurata, della Nasa. Le previsioni del gruppo «progressista» si sono rivelate più simili tra loro e vicine a quelle degli scienziati. Non sorprende, perché i negazionisti del mutamento climatico sono soprattutto elettori di destra.

A UN ALTRO GRUPPO di volontari, è stato permesso di discutere telematicamente con altri volontari di entrambi gli schieramenti. Dopo l’interazione, le previsioni sul clima si sono rivelate più accurate, a dimostrazione che discutendo con chi la pensa diversamente spesso si impara qualcosa. C’è speranza? Non esattamente: è bastato che, in un terzo gruppo, nelle interazioni venisse mostrato un simbolo del partito repubblicano o di quello democratico per far riemergere la polarizzazione delle posizioni, sia tra i progressisti che tra i conservatori.
Ricerche come queste servono agli scienziati (e non solo a loro) per capire se il confronto tra opinioni diverse contribuisce a un’idea più obiettiva del reale oppure, come ritengono molti, allontana ancora di più le posizioni. Secondo gli autori della ricerca, l’esperimento dimostra che interagire con opinioni più eterogenee può cambiare (in meglio) la nostra capacità di interpretare la realtà. Ma questa «intelligenza collettiva» è assai fragile: e basta un logo politico sotto un grafico per far saltare tutto.

È UN TEMA DI ATTUALITÀ per noi: la settimana scorsa una ricerca dell’Istituto Cattaneo ha rivelato che gli italiani hanno l’opinione sull’entità dell’immigrazione più distorta (in eccesso) rispetto alla realtà in confronto a tutti gli altri Paesi europei. La ricerca di Filadelfia dovrebbe anche metterci in guardia sul ruolo delicato dei social media come Facebook o Google. I loro algoritmi ci propongono «amicizie» e informazioni in modo da fornire agli inserzionisti il pubblico più adatto ai prodotti da pubblicizzare. Possono diffondere nella società consapevolezza o ignoranza, e a fare la differenza sono variabili che non controlliamo.
La ricerca è uscita proprio nel giorno del ventesimo compleanno del motore di ricerca fondato da Larry Page e Sergey Brin. Oggi Google raccoglie un terzo del mercato pubblicitario digitale mondiale (il doppio di Facebook) e produce 32 miliardi di dollari di ricavi per la casa madre Alphabet. È suo anche Android, il sistema operativo installato sull’88% degli smartphone attraverso cui raccoglie dati su spostamenti, consumi e relazioni personali. E dalla tasca ci rende più intelligenti oppure, se lo chiede l’inserzionista, decisamente più stupidi.