Con la meritata premiazione di Federica Di Giacomo e del suo Liberami si è concluso il concorso di Orizzonti, il secondo per importanza alla Mostra di Venezia, che nei suoi intenti dovrebbe avere una vocazione più sperimentale. In realtà, con l’ormai consolidato e usuale sconfinamento di un genere su un altro, con narrazioni che osservano mondi altri ma che potrebbero rivelarsi improvvisamente degli sguardi autobiografici, con tempi e spazi che tendono all’unità o alla frammentazione, con l’uso di tecniche diverse, pare sempre più difficile identificare l’opera capace di eccedere se non, addirittura, di rompere le regole.

Il cinema è molto più fluido di quanto certi osservatori si ostinano a credere. Dunque, che film sono l’appena menzionato Liberami o lo splendido Ku Qian (Bitter Money) di Wang Bing a cui è andato un enigmatico quanto fantasioso Premio per la Miglior Sceneggiatura? Forse è più semplice individuare la sperimentazione nel tradizionale lavoro di montaggio realizzato da Bill Morrison che racconta con filmini amatoriali e pellicole anni Dieci e Venti la corsa all’oro in Dawson City: Frozen Time. E alla categoria delle sperimentazioni potrebbe appartenere anche il misterioso e affascinante argentino Kékszakállú di Gastón Solnicki, la trasposizione dell’unica opera lirica di Bela Bartok, nel quale il castello di Barbablù si trasforma in un villaggio vacanze e la musica accompagna un’umanità immobile, intorpidita e annoiata.

Poco sperimentale era certamente il nepalese White Sun di Deepak Rauniyar. Classica storia nella quale il politico entra in conflitto con il famigliare, dove l’esigenza di trovare un modo per convivere in pace dopo la guerra civile, si scontra con l’irretimento delle persone nella propria posizione. Maoisti da una parte, monarchici dall’altra, futuro contro passato, nuove modalità di vita contro tradizione. Il tutto messo in movimento da un archetipo, da un elemento narrativo tragico come il seppellire il corpo di un uomo, il capo di un villaggio a cui toccano tutti gli onori imposti dai riti e che, però, ha un figlio rivoluzionario che quegli stessi riti vorrebbe abbattere una volta per sempre. Al di là di una vicenda che apparentemente sembra distante, il film quali regole del nostro immaginario stravolgerebbe?

Domanda da porre dopo la visione del secondo premio di Orizzonti, quello per la Miglior Regia, vinto dal belga Home della regista Fien Troch. Anche in questo caso viene spontaneo chiedersi quale eccentricità esibisca un lavoro su adolescenti inquieti che non riescono più a legare con i propri genitori e neanche con i loro coetanei. Ad ogni modo, mettendo da parte la questione della selezione, Home dipinge una generazione che non ha motivazioni particolari nell’essere arrabbiata.

Sono ragazzi senza grandi problemi economici, non hanno ideali politici, non vogliono sovvertire alcuna regola. E tutte le infrazioni che commettono non provocano emozioni e piaceri di sorta. Semplicemente si annoiano e pensano a come fare del male al prossimo, che si tratti di un senzatetto o di un professore. Kevin è il diciassettenne che esce dal riformatorio, non accettato a casa, va a vivere dalla zia e dal cugino Sammy. Con quest’ultimo frequentano John, l’amico che ha gravi problemi con le molestie e la morbosità della madre. Intorno a queste relazioni e altre, scopriamo un mondo fatto di tante miserie e nessuna nobiltà, al punto da chiedersi quando tutta quella violenza si riverserà non più verso un malcapitato qualsiasi, ma nei confronti di un gruppo, di una massa, di una collettività. Perché a questo mondo, non tutta la violenza sembra provenire da estremisti religiosi.