Nei giorni in cui rimbalza a sorpresa il nome del poco noto Oliver Mears come nuovo direttore artistico del Covent Garden di Londra, il regista danese Kasper Holten, che lascerà il teatro londinese a marzo 2017, approda alla Scala di Milano. Accolto da un buon successo, mercoledì ha infatti debuttato The Turn of the Screw di Britten, produzione firmata da Holten che rimarrà in cartellone fino al 17 ottobre. Di certo è una stagione movimentata per Holten, che lo scorso dicembre ha accettato solo un rinnovo pro-tempore di un anno alla guida del Royal Opera House, per concludere la sua gestione la prossima primavera con la messinscena dei Maestri Cantori di Norinberga di Wagner. Grandi cambiamenti in vista dunque per il primo teatro britannico e per Antonio Pappano, che ha confermato la sua presenza fino al 2020 ma aveva anche stabilito un’ottima relazione con il quarantatreenne regista danese.

 

 

Il debutto scaligero è sicuramente una tappa energizzante per Holten, devoto sostenitore dell’opera. «Ne sono appassionato da quando avevo nove anni, e più o meno allora ho capito la Scala di Milano era un luogo sacro, un vero e proprio tempio per quella musica. Perciò questo non è un debutto come gli altri e sono felice che il titolo scelto sia The Turn of the Screw, mai rappresentato sul palcoscenico maggiore del Piermarini, e che forse il pubblico conosce meno. Mi ha molto affascinato la sfida di portare un’opera da camera in un teatro così grande attraverso la costruzione delle scene, l’uso delle immagini e della regia».
La storia narra la disperata lotta di una giovane governante contro due spettri che cercano di «possedere» i due bambini di cui si occupa.

 

 

Come ha affrontato la relazione che il dramma stabilisce tra i personaggi reali e i fantasmi?
Tendo sempre a mantenere un senso di ambiguità su questi elementi, anche se nella mia regia i fantasmi sono figure prodotte dalla condizione di repressione e dalle paure della giovane governante, più che entità reali.

 

 

Il Regno Unito al momento è abitato da un altro fantasma divenuto realtà, la Brexit. ll direttore del Victoria and Albert Museum ha annunciato le sue dimissioni dopo il referendum, come tedesco non si sentiva più «a casa» a Londra. Nella sua decisione di lasciare il Covent Garden, questo dibatto ha contato?
La verità è ciò che ho sempre detto: mia figlia più grande inizierà le scuole e vorrei starle più vicino, a Copenaghen, tutto qui. Però mentirei se dicessi che non ho assistito con disagio al montare di un nuovo conservatorismo, una sorta di nostalgia identitaria che rivendica una distanza dal preteso intellettualismo europeo. Esiste oggi un rifiuto dell’idea del teatro e della cultura come sfida, qualcosa che ci mette alla prova seriamente e non è solo uno svago o un piacere privo di implicazioni serie, fatto principalmente per un’ élite.

 

 

Quindi le controversie che hanno acceso il pubblico nelle scorse stagioni, come la scena dello stupro nel «Guglielmo Tell» e la Lucia con le scene «hard», non hanno contato nulla?
No, quelle contestazioni mi fanno solo desiderare di impegnarmi di più nel mio lavoro. Intendiamoci, il dramma teatrale deve avere necessariamente spazio sulla scena, ma senza musica non si può far nulla. Viviamo in un’epoca in cui usiamo migliaia di parole, ma spesso non ci bastano per spiegare emozioni, paure, i misteri della vita e della morte. La musica è un’incredibile strumento per far vivere questi temi nel profondo e un regista non può precludersi queste possibilità. Le controversie sulle regie spesso non riguardano la musica, ma sono legate alla nostalgia, al ricordo della prima volta in cui abbiamo visto un’opera e al desidero inconscio di ritrovare quel momento, immutato. L’opera è vista come una fuga, un altrove in cui tutto deve essere calmo e piacevole. Un punto di vista che finisce per far torto ai grandi compositori, Rossini, Verdi, Wagner, che erano rivoluzionari anche perché raccontavano storie drammatiche, difficili e perfino disturbanti. Per questo penso che un regista non debba sottrarsi al compito di far riflettere e anche di destabilizzare il proprio pubblico, se necessario.