«Sono entrato in Israele nel 2010, un lungo viaggio dall’Eritrea fino al Cairo poi attraverso i deserti del Sinai e del Neghev, sfuggendo ai controlli della polizia di vari paesi. Credevo di sognare quando arrivai a Tel Aviv, una città vera dopo tanto deserto». Emanuel sorride. Davanti agli occhi forse gli scorrono come un film le immagini di quei tanti chilometri percorsi in ogni modo, in autocarro, in sella ai cammelli, a piedi. Un viaggio che fece assieme alla moglie per sfuggire a un mandato di cattura spiccato dalla magistratura militare del suo paese. «Sono un disertore, non mi piace fare il soldato e andare in guerra, combattere non è per me», aggiunge Emmanuel che al suo arrivo in Israele chiese subito l’asilo politico attraverso un’associazione locale che aiuta migranti. Invano. «Nei primi mesi (a Tel Aviv) dissero che avrebbero preso in considerazione il mio caso – racconta – io nel frattempo imparavo l’ebraico e lavoravo per diversi negozianti israeliani, le cose sembravano andare per il verso giusto. Mia moglie ed io credemmo di aver trovato il luogo dove vivere, perciò decidemmo di avere un bambino».

Pochi mesi dopo per Emanuel sarebbe cambiato tutto, sotto il peso dell’improvviso inasprimento delle leggi sull’immigrazione deciso dal governo Netanyahu e della crescente ostilità degli israeliani più poveri e dimenticati che convivono con i migranti nei quartieri popolari della periferia di Tel Aviv. «Un giorno fui fermato dalla polizia e arrestato come clandestino e per ingresso illegale nel Paese. Da allora non ho più visto mia moglie e mio figlio. Mi tengono in carcere da oltre due anni ma non ho mai incontrato un giudice». La vita di Emanuel e di almeno altri 200 africani, in gran parte eritrei e sudanesi, ora è a Holot, in pieno deserto. Un “centro di raccolta” di migranti, di “infiltrati” o “alieni”, come li definiscono ufficialmente in Israele. Sessanta chilometri a sud di Beersheva, non lontano dal confine con l’Egitto lungo il qualche il governo israeliano ha fatto costruire un muro, un altro, stavolta per impedire l’ingresso agli “alieni”. Holot per il governo è un “campo aperto”, da dove i migranti possono uscire. In realtà è un carcere mascherato, neanche troppo diverso dalle vicine prigioni di Saharonin e Ketziot. «Fino ad un mese fa ero a Saharonim, poi mi hanno portato qui a Holot. Certo posso uscire, fare qualche passo intorno ma non sono un uomo libero, resto un prigioniero. Dove potrei andare, intorno c’è solo il deserto», dice Ahmad, un altro eritreo. « Non possiamo lavorare – aggiunge – e siamo tenuti a presentarci tre volte al giorno alla direzione del centro per dimostrare che non siamo scappati. Chi si allontana per più di 72 ore viene ricercato come un criminale e rischia una pesante condanna». Agli africani rinchiusi in Holot viene data la possibilità di andare a Beershava in autobus. «Ma noi non abbiamo soldi e rimaniamo sempre qui, in attesa di capire cosa faranno di noi – interviene Emanuel – vogliono obbligarci ad andare via, ci promettono dei soldi ma io non posso tornare in Eritrea, rischierei la vita mia e quella di mia moglie, sono un disertore».

Per il governo Netanyahu gli “infiltrati” non sono rifugiati politici ma soltanto degli africani in cerca di lavoro. Pertanto devono andare via al più presto. Altrimenti saranno spediti ad Holot, almeno per un anno. O peggio a Sahronim dove le condizioni di vita sono più dure. Il governo ha più volte fatto capire che non cambierà le sue decisioni e in questi ultimi mesi ha saputo aggirare la sentenza della Corte Suprema che aveva dichiarato illegale la detenzione senza processo dei migranti. A conferma di questa linea del pugno di ferro, le autorità hanno esaminato solo un numero limitato di richieste di asilo politico. Nonostante le sollecitazioni dei giudici che avevano imposto di esaminare caso per caso la situazione dei migranti e aveva fissato 90 giorni come termine massimo. Un giudice, Uzi Fogelman, è stato chiaro a riguardo: «Questo è il termine massimo per esaminare lo status di tutti i detenuti, chi è stato controllato e la sua liberazione non costituisce un pericolo deve essere liberato».

«Dall’atteggiamento che ha lo Stato – spiega l’avvocato dei diritti umani Oded Peller – è evidente che non c’è alcuna intenzione di rispettare la sentenza della Corte Suprema. I controlli sono lentissimi allo scopo di impedire la liberazione della maggior parte degli arrestati e per deportarli in un’altra struttura». La risposta del governo Netanyahu alle sollecitazioni dei giudici è stata la costruzione di Halot, una prigione chiamata “centro di raccolta”. Tentiamo di entrare. Emanuel, Ahmad e i loro compagni, che hanno accettato di rispondere alle nostre domande all’esterno di Holot, ora ci seguono con lo sguardo mentre ci avviciniamo all’ingresso del centro-prigione. «Perchè non possiamo?», domandiamo a una guardia che rifiuta di aprirci. «Dovete rivolgervi al portavoce dell’Autorità delle Carceri», ci risponde. «Ma se questo, come dite, non è un carcere, allora non abbiamo bisogno di un permesso dell’Autorità delle Carceri». Ci intimano di allontanarci senza fare storie. Dopo un paio di minuti viene a parlarci un responsabile di Holot. E’ in divisa. «E’ inutile insistere, l’ingresso è vietato alla stampa, a chiunque. Solo chi vive qui può entrare e uscire», ci dice perentorio e con il sorriso stampato sulla bocca. «Hai capito ora? -, ci chiede Emanuel – Questa è una prigione come hai potuto vedere, è meglio di Sahronim ma resta una prigione. E io voglio essere un uomo libero perchè non ho commesso alcun reato, non sono un criminale. Perchè Israele mi tratta come una bestia pericolosa?».

Ci portiamo dietro l’angoscioso interrogativo di Emanuel mentre ci allontaniamo da Holot e dalle gemelle Ketziot e Sahronim. La luce patta del vuoto deserto del Neghev ci accompagna per molti chilometri. A Tel Aviv ci aspetta Tamar Aviyah attivista dei diritti dei migranti. Gli “infiltrati” finalmente hanno scelto di non rimanere in silenzio, hanno deciso di far sentire la loro voce, di lottare contro chi li mette di fronte a due sole possibilità: andare via o finire in carcere. Sono in marcia per i loro diritti. «Guarda sono migliaia, sapevo che sarebbero venuti in tanti, senza più paura, decisi a lottare ma non mi aspettavo così tanta gente», ci dice Tamar mentre davanti ai nostri occhi sfilano sudanesi, eritrei e africani di vari paesi. A fine giornata si saprà che sono scesi in strada quasi in 30mila. Ci sono parecchi israeliani con loro ma il corteo diretto da Piazza Rabin verso il parco di via Levinsky, alla periferia sud della città, è composto soprattutto dai migranti. «E’ un risultato eccezionale perchè (i migranti) hanno saputo organizzarsi da soli. Gli attivisti hanno dato un mano ma i protagonisti assoluti sono i migranti», dice Tamar. “Lasciateci vivere”, è scritto su un cartello issato da una donna. “Dateci l’asilo politico” su di un altro. L’atmosfera è allegra, distesa. La polizia si tiene a distanza. Tamar e altri attivisti israeliani prima di Natale hanno aiutato centinaia di migranti, che avevano lasciato Holot, a raggiungere la Knesset a Gerusalemme per protestare contro la legge sull’immigrazione. «I poliziotti in quel caso usarono le maniere forti e molti dei migranti furono arrestati per aver abbandonato il centro di raccolta», ricorda.

Per Tamar il segnale è inequivocabile. «Questi uomini e queste donne con la loro lotta ci stanno dando una lezione di incredibile importanza. Stanno dicendo – prosegue l’attivista – agli israeliani che non accettano il razzismo, la negazione dei diritti, che credono nella libertà dei palestinesi sotto occupazione e vogliono una società multiculturale e multietnica, che possono vincere su di una classe politica che fa della forza la sua legge e che la battaglia non è mai perduta se c’è la determinazione giusta per portarla avanti. Siamo noi attivisti che dobbiamo dire grazie, non loro». Il corteo prosegue, immenso, colorato, pacifico. A piazza Levinsky è il momento del riposo e dei bilanci. «Siamo tanti, Israele non può ignorarci, deve accoglierci», dice Ethan giunto da Juba. «Non ci fermeremo, andremo avanti», promette un suo amico. Entrambi non hanno più di 20 anni. In strada distribuiscono volantini. «Siamo sfuggiti a persecuzioni – è scritto sui fogli – a coscrizioni forzate nelle forze armate, a guerra civili e a genocidi. Invece di essere trattati come profughi dal governo israeliano siamo trattati come criminali». «Chiediamo – prosegue il volantino – la revoca dell’emendamento alla legge sull’immigrazione; la fine degli arresti; il riconoscimento dello status di profughi; il rispetto dei diritti sociali dei rifugiati».

Ieri nuova manifestazione a Tel Aviv, passando davanti a una decina di ambasciate fra cui quelle di Stati Uniti, Francia, Italia, Svezia, Gran Bretagna e Canada e agli uffici dell’Agenzia dell’Onu per i profughi che ha criticato le nuove leggi israeliane in materia di immigrazione e la costruzione di Holot. Il ministro degli interni Gideon Saar ha ribadito che la legge (concepita proprio da lui) non sarè modificata. Una parlamentare del Likud, Miri Reghev, ha affermato che è obbligo del governo «impedire che questi infiltrati si impadroniscano» delle strade israeliane. Parole che non fermeranno i migranti.