L’appuntamento con Thierry Frémaux era stato fissato venerdì scorso, una novità nel protocollo, non era mai successo infatti che il delegato generale – come viene qui definito il direttore artistico – del Festival di Cannes incontrasse la stampa alla vigilia dell’inaugurazione. Una nuova mail, due ore prima, ci informa di un cambiamento di orario, infine eccoci, al terzo piano del Palais du Festival ancora in allestimento (security a parte). Cosa scopriremo di nuovo? Poco, pochissimo, si parla di Quentin Tarantino, che è un amico del Festival, e del suo Once Upon a Time in Hollywood, «un film centrale nella selezione», lo definisce Frémaux- come quelli dei Dardenne, di Malick, un film che parla di cinema. «Voglio ringraziare i registi, chi sta ancora lavorando come Kechiche» aggiunge.

QUALCUNO AVANZA una timida polemica sulla scelta di onorare Alain Delon, «omofobo e vicino alla famiglia Le Pen». «Il nostro è un omaggio alla carriera di attore, non si può essere come la polizia politica che condanna tutto e limita così la libertà di espressione». Giustissimo specie se si pensa che domenica è morto un grande – e poco noto in Italia – regista francese come Jean-Claude Brisseau, a 74 anni, che proprio a Cannes aveva conquistato nel 1988 con De bruit et de fureur il premio della Jeunesse. Di omaggi però non ve ne saranno quasi certamente per lui..

Nel 2005 Brisseau era stato condannato per molestie sessuali contro due sue attrici, ha scontato la pena ma l’anno scorso la Cinématheque française aveva annullato la sua retrospettiva per non scatenare ulteriori polemiche dopo quello legate alla personale di Polanski. Un altro assente da questa selezione, magari il suo J’accuse sull’affaire Dreyfuss non è finito – il sito di Imdb lo dà in uscita in Francia il prossimo novembre – ma anche se lo fosse stato avrebbe avuto un invito dopo gli attacchi per i César e quant’altro?
Once Upon a Time in Hollywood è, ha detto ancora Frémaux, un’immersione nella Hollywood che Tarantino ha conosciuto nella sua adolescenza. Quella di oggi però sulla Croisette non c’è quasi per niente, e ormai da diversi anni, il Festival dagli Oscar a differenza della Mostra del cinema di Venezia è tagliato fuori,ci sono poche star.

SARÀ UN PROBLEMA di calendari ma tra gli addetti ai lavori ormai sono in tanti a dire che il punto di forza della manifestazione francese è il mercato, è questo che fa da traino, è per questo che la gente ci va e non viceversa. E visto che il Festival di Cannes – come viene detto – vuole mettere il cinema nel centro del mondo non è un’assenza da poco. Non ne viene fatta menzione però, come si tace sulla questione Netflix – pure se la domanda galleggia nell’aria per tutta la durata dell’incontro. Del resto: cosa aggiungere? È chiaro che il fallimento di questa trattativa rimanda a un’assenza di volontà e di intervento politici soprattutto, del Festival evidentemente il colosso dello streaming non si preoccupa molto, è entrato nell’Academy, ha conquistato gli Oscar con Roma, sta producendo alcuni dei registi più importanti del cinema attuale, vedi Martin Scorsese e il suo nuovo Irishman, i veti imposti dalla Croisette, legati alla finestra in Francia tra uscita in sala e diffusione sullo streaming considerata da Netflix troppo ampia rispetto alle proprie esigenze di distribzione immediata, non valgono nulla.

Il punto è non schierarsi con questo o con quello, il sistema francese è retto ancora dalla sala e si capisce quindi l’avversione. Però queste piattaforme esistono, fanno parte della nostra realtà, del business, e ignorarle non aiuta il cinema nella sua sopravvivenza.
Cannes 2019, dunque, si comincia col nuovo film di Jim Jarmusch, The Dead don’t Die, nella cittadina della Costa azzurra presa d’assalto da qualche giorno non sembra essere cambiato nulla, lo stesso struscio che ogni anno mescola ultimi brividi d’inverno e promesse di un’estate canicolare, i pantaloni bianchi e il cappottino, i piedi spauriti appena liberati da calze e scarpe e i boots per chi non ci rinuncia mai nemmeno al mare.

SU TUTTO veglia l’indomita Agnès Varda, scomparsa poco tempo fa, colta in bilico sulle spalle di un uomo mentre riprende è dietro la macchina da presa. L’immagine che rimanda al suo primo film, Le pointe courte, è un omaggio alla regista, che era qui lo scorso anno insieme a altre artiste, attrici, registe per protestare contro la differenza di genere nell’industria dello spettacolo, lei unica donna nella Nouvelle vague il cui stile e sguardo sul mondo rivendicava e che, come ricorda Frémaux non amava essere chiamata «una cineasta donna». «Sono una donna e una cineasta», diceva.

CI TIENE, Fremaux a puntualizzare che nel Festival – a cui si chiede di essere «perfetto» – la parità di genere è un punto di arrivo nell’equipe, nel management, nella scelta delle giurie e dei loro presidenti di quest’anno – Inarritu per il concorso, Labaki per Un Certain Regard – ma che i film non seguono l’obbligo di genere, vengono scelti per le loro qualità senza calcolo di quote. Per certi aspetti Varda fa pensare anche agli equilibrismi a cui sarà sottoposto chi lavora in questa edizione, la stampa prima di tutti quella scritta, con una griglia di programma che appena uscita ha scontentato tutti – e specie il passaparola su proiezioni nemmeno riportare sul programma segretissime riservate a televisioni e radio. Il problema sono i social e il web, i commenti mandati in giro che stroncano senza ragione i film prima delle proiezioni ufficiali. Anche qui rispondere coi divieti è un modo per non confrontarsi con quella che è la realtà, cosa che accade in altri grandi festival con l’imposizione dell’embargo e senza rendere impossibile il lavoro ai più, specie a chi non è tutelato come i free lance. In fondo l’arroccamento non è un segno di debolezza?