È un nuovo maccartismo», mi diceva un regista noto e abbastanza anziano per ricordarsi le Commissione per le attività antiamericane. Il nome di McCarthy affiora anche nelle conversazioni con l’executive di uno studio e quello di una piattaforma di streaming. «Questa città è fatta per il 10% di megalomani stratosferici e per il resto di gente disperata perché non ha una carriera: un mix peggiore di così non lo potevi trovare», è la diagnosi del capo del marketing di una Major. Occhi bassi, sorrisi preoccupati, appuntamenti cancellati all’ultimo momento per sedute d’emergenza, board meeting disertati per evitare l’argomento, solo pochi osano l’occasionale battuta su Harvey – tutto è rigorosamente off the record.

 
Chi può permetterselo sta zitto, visto che la sensazione quella di una caccia aperta: ogni giorno può saltare fuori un nome nuovo, inaspettato come quello di Dustin Hoffman, più prevedibile come quelli di Brett Ratner o Kevin Spacey, meno noto come quello di Jeremy Piven. Se uno vola basso, o non reagisce, forse la scampa. Basta un’accusa è l’effetto è a domino – guilty by association, la «colpa» si estende come un contagio.
Prendere le distanze immediatamente l’unico modo di porsi, come hanno fatto l’ufficio stampa di Kevin Spacey e l’agenzia che lo ha rappresentato per nove anni, poco prima che sulle accuse all’attore/produttore di House of Cards entrasse in scena anche Scotland Yard, e dopo che Netflix sospendesse la produzione, lasciando il destino dell’ultima stagione della serie in forse, e parecchia gente senza posto – l’unità di misura più estrema, a Hollywood, dove la tutela del lavoro delle maestranze è considerata sacra.

 
O come la Warner Brothers ha reagito con Ratner (che ha fatto causa una delle sue accusatrici), riunciando a un accordo produttivo da 450 milioni di dollari e bandendolo pure dal suo back lot, dove aveva ereditato il bungalow di un altro bad boy, Joel Silver, finito in disgrazia qualche anno fa. Il film di Woody Allen in arrivo in sala? Dopo i due articoli di Ronan Farrow non ha una chance. Dead on arrival – mi garantisce un publicist. Kate Winslet, la protagonista, non può rilasciare un’intervista senza essere chiamata a difendere Woody. Suburbicon, l’ultima regia di George Clooney? Un disastro totale del botteghino, forse anche perché, nelle due settimane che ne hanno preceduto l’uscita, Julianne Moore, Matt Damon e George Clooney, attesi in agguato a ogni tappeto rosso o a ogni incontro stampa, erano costretti a parlare di Harvey, invece che del loro film.

 

 

 

Sei un giovane attore di grido, hai lavorato con uno dei nomi incriminati e hai in programma un giorno di promozione? Meglio cancellare tutto che rischiare di essere incastrato dai giornalisti off topic. Infatti – cominciano a temere alcuni – lo tsunami del sexual harrassment potrebbe scipparsi anche la campagna degli Oscar: i trades hanno assegnato tutti i loro reporter all’Harveygate. E gli attori/registi/produttori/sceneggiatori…che in questo periodo dell’anno trasmigrano di party in party, di stretta di mano in stretta di mano con i membri dell’Academy, rovinandosi il fegato a forza micidiali di buffett, per avanzare le loro chance aun Oscar o a un Golden Globe, sono costretti a rispondere di tutt’altro. O si rendono meno accessibili. «Sarà la volta che l’Academy voterà sui film. E non sull’efficacia della campagna promozionale», ipotizza serafica un’amica che ha due film in odore di statuetta. Vedremo. Intanto, però a Hollywood è il si salvi chi può , a prescindere da qualsiasi questione di principio. L’emorragia continua.
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