In Empire of Their Own: How The Jews Invented Hollywood, Neal Gabler racconta la storia dei fondatori degli studios di Hollywood e la loro improbabile traiettoria da famiglie di commercianti ebrei dell’Europa orientale ad inventori del cinema e creatori dell’immaginario di un paese con cui all’origine avevano ben poco in comune.

LA FUSIONE

Con Harry Cohn (Columbia), Carl Laemmle (Universal), Louis B. Mayer (MGM), i fratelli Warner e Adolph Zucker (Paramount) c’era anche William Fox, ex pellicciaio del New Jersey e fondatore della Fox Pictures che inaugurava gli studio di Los Angeles esattamente un secolo fa, nel 1917. Quegli studios sarebbero diventati leggendari dopo la fusione con la 20th Century Pictures di Daryl Zanuck negli anni 30. Il merger con la Disney nel centenario, non è quindi la prima della società, ma segna in qualche modo la conclusione di una parabola iniziata allora. Già da anni per la verità, gli studios hanno cessato di essere «major» e sono diventate vetrine di colossi «verticalmente integrati» dell’intrattenimento cine televisivo (Viacom, Comcast, Sony…). Mai prima però una major aveva fagocitato così simbolicamente una delle sei originali consorelle, un evento che segna per molti versi la fine di quell’originale impero, di cui la Fox è l’ultima fortezza a capitolare.

LA FOX

Accade per mano della Disney lo studio che porta il nome dell’unico fondatore non ebreo. Lo studio è oggi anche l’unico delle originali Big Six a non far parte di una società madre ma ad essere essa stessa una superpotenza, assurta dalle origini dell’animazione a colosso del settore, titolare della Pixar e Marvel, Guerre Stellari le reti ABC e ESPN, editoria, musica, merchandising e i parchi divertimento in tre continenti. E oggi anche degli storici studios Fox – fra i più suggestivi della città, con i teatri di posa decorati dai caratteristici murales tratti dai fotogrammi di classici film (Tom Ewell e Marylin Monroe in Quando la Moglie è in vacanza, le riprese di Alba Fatale con Henry Fonda, Julie Andrews che volteggia sulle Alpi austriache…). Dagli anni ‘80 la Fox è passata sotto l’ombrello della 21st Century dell’imprenditore reazionario Rupert Murdoch e della sua emittente di TV News conservatrici, attuale megafono trumpista. Dall’affare Disney Murdoch uscirà più ricco di 52 miliardi di dollari e libero di dedicarsi al suo impero giornalistico-propagandistico (e sportivo).

LA DISNEY

La Disney da canto suo acquista un leggendario catalogo di titoli, e raddoppia la capacità produttiva aggiungendo in particolare la divisione arthouse Fox Searchlight, specializzata in film autoriali che invece fanno difetto a Topolinia. Nell’era dei supereroi trionfanti i film d’autore sono un segment irrisorio al cinema ma possono essere utili invece per riempire palinsesti on-demand – così anche le fiction originali del canale FX. La Disney si sta insomma attrezzando per la resa dei conti che deciderà i confini nel nuovo mondo in cui Silicon Valley contende il primato a Hollywood. Il catalogo Fox unito a quello Disney potrà alimentare le piattaforme streaming con cui lo studio proverà a contrastare i concorrenti sul loro terreno.

NETFLIX, AMAZON

Come è diventato ormai più che evidente nei principali festival cinematografici mondiali, l’entrata in campo dei grandi gruppi digitali come produttori è un dato ormai acquisito. Netflix e Amazon sono passati da servizio di videonoleggio e venditore di libri a domicilio a produttori dalle risorse apparentemente illimitate, finanziati da una base di clienti fuori dalla portata di qualunque studio. La sola Netflix ha annunciato per il prossimo anno un listino di ben 80 nuovi film – più della produzione di tutti gli altri studios messi assieme. Il nuovo modello è emerso con fulminea velocità, un paio di anni appena da quando Netflix e Amazon hanno preso a scritturare grandi registi e contendersi le aperture di Cannes e Venezia, alla realizzazione negli studios di Burbank, il quartier generale Disney, che le regole erano cambiate.

In questo «ecosistema» l’evoluzione Disney era inevitabile pena l’estinzione oltreché conferma della conversione di Hollywood all’emergente assetto digitale in cui il cinema esiste sempre più in funzione della fruizione on-demand. Per i film Amazon e Netflix le uscite in sala, quando ci sono, assolvono poco più di una funzione pubblicitaria per la successiva distribuzione online; anche per la Disney ora sarà sempre di più cosi. I nuovi acquisti fatti alla Fox sono preziose munizioni nella battaglia con i giganti dello streaming sullo sfondo della definitiva privatizzazione destinata a sancire il destino di internet come rete di distribuzione di contenuti commerciali.

LA RETE COME LA TV

C’è qualcosa in più che una semplice coincidenza, infatti, nella simultanea abrogazione del Net Neutrality da parte della authority delle telecomunicazioni del governo Trump. La decisione prepara internet come il campo di battaglia per gli interessi dei grandi gruppi dell’intrattenimento. La rete, consegnata al libero mercato, è destinata ad assomigliare sempre più alla televisione: offerte speciali, bouquet … un canale comunque per il massimo profitto delle aziende che lo controllano e senza nemmeno le minime garanzie che governano l’etere come bene pubblico. Si compie con il trumpismo la parabola di ’monetizzazione’ del web.

L’utopia dei primi anni – di laboratorio di startup, fermento creative e miraggio di comunicazione «orizzontale» – sembra lontanissima alla luce degli emergenti oligopoli del contenuto. Disney, come Amazon e Netflix punta a creare una piattaforma onnicomprensiva basata sull’abbonamento- il modello «cradle to grave» che mira ad assicurarsi la fedeltà dei clienti per tutti i consumi «dalla culla alla tomba» e fornire agli utenti non solo intrattenimento ma lifestyle, stile di vita, modi di pensare e consumare. La Disney è dopotutto sempre stata all’avanguardia nel creare «comunità intenzionali» – il nome del suo parco in Florida – EPCOT – sta dopotutto per experimental prototype city of tomorrow. In rete l’azienda potrà coinvolgere ben più delle 8000 persone che vivono attualmente nella «città perfetta» di Celebration, costruita dalla Disney sempre in Florida con una singolare somiglianza alla suburbia artificiale di Truman Show, «liberi» di acquistare dall’azienda non solo prodotti e servizi anche la casa, di condurre la propria vita entro un recinto molto branded (l’obbiettivo anche di Apple, Facebook e gli altri marchi che governano le nostre vite quotidiane.)

Nelle versioni virtuali di queste «comunità», ad esempio Amazon Prime, l’idea è di fornire agli abbonati sempre più prodotti servizi dai beni di consumo al divertimento agli alimentari con l’obbiettivo di ottenere la fedeltà assoluta dei cittadini/consumatori – ed il trasferimento sempre più massiccio di dati verso i server aziendali (raccolti ormai anche da terminali con riconoscimento vocale dentro le abitazioni, come Amazon Alexa e Google Home).

Sullo sfondo di un internet sempre più supermercato e della privatizzazione ad oltranza che ha trasferito ormai in mani private ed insindacabili il controllo di servizi come poste e telefonia, l’affare Disney/Fox è semplicemente un ultimo adeguamento al consolidamento ed al trionfo del mercato sulla sfera pubblica.