Cosa hanno in comune oltre alle statuette dell’Academy che hanno collezionato, The Imitation Game, Spotlight, The Revenant, Whiplash, Argo, Il discorso del Re, The Millionaire, The Wrestler, Juno, Il petroliere, Arrival, Manchester by the Sea? Sono tutti titoli le cui sceneggiature, prima di essere state tramutate in film, sono state incluse nella Hollywood Blacklist, nata a Los Angeles nel 2005. Una lista nera che però non ha niente a che vedere con quella passata alla Storia ai tempi della caccia alle streghe di maccartiana memoria, ma che anzi attira tutti i giovani scrittori per il cinema, i quali altro non sognano che di potervi essere un giorno compresi. Come paradigma americano vuole, dietro a questa riscrittura di sé in cui Hollywood re-interpreta e assolve sé stessa, vi è un imprendibile man behind the curtain: Franklin Leonard è il Wonderful Wizard di questa storia che ha ribaltato non solo il lessico e il gergo di un’intera comunità, ma che ha anche avuto l’ardire di provare a reinquadrare le modalità e i rituali attraverso i quali arrivare da qualche parte oltre la scritta Hollywood. Fresco di laurea cum laude ad Harvard, classe 2000, Franklin Leonard approda ventisettenne all’Appian Way Productions di Leonardo di Caprio nel ruolo di Junior Executive e da lì a poco inizia la sua, ormai, leggendaria Blacklist.

Durante tutto l’anno e ad ogni livello della catena alimentare, ad Hollywood c’è una domanda su tutte ricorrente: «hai letto qualcosa di interessante, ultimamente?» è il 2005 quando Franklin decide di interrogare in forma anonima tutti i suoi contatti in rubrica, chiedendo ad ognuno di stilare una personale top-ten delle dieci sceneggiature più interessanti non ancora diventate film. A quella mail, con suo grande stupore, rispondono in 93 fra Executive e Studio Assistant. Franklin mette allora in ordine i titoli degli script stilando una classifica dal meno al più menzionato, e rispedisce ai suoi contatti – da un’indirizzo email anonimo – un pdf con la classifica finale. Pur avendo iniziato il sondaggio per scambiarsi semplici opinioni e ricevere consigli di lettura con altri addetti ai lavori, il nostro eroe realizza in fretta che l’operazione ha un certo potenziale sovversivo. Franklin Leonard infatti, da cittadino afro-americano, ha sempre avuto a cuore la questione di mancanza ad Hollywood di una rappresentazione eterogenea in quanto a diversità, uguaglianze contrattuali e pluralità di voci, non solo in termini di volti davanti alla macchina da presa, ma anche rispetto a quante e quali sono le storie che riescono a superare tutti i passaggi necessari prima di poter vedere la luce verde e diventare film.

Non è certo un segreto che i film prodotti dalle Major negli anni recenti portano ormai numeri – per così dire – poco «americani» e l’industria, nel frattempo orfana del buon vecchio mercato home-video, si è trovata a dover contare sugli introiti generati dalle vendite all’estero dei propri film.

Gli Studios hanno così iniziato a mutare nella mentalità, nella visione corporativa, restringendo il campo di titoli considerati redditizi, andando man mano a perdere qualsiasi sorta di curiosità o tendenza al supportare sceneggiature e storie inusuali o a prima lettura meno sfruttabili entro quella mentalità stagnante di caccia al franchise, di sequel, prequel, reboot, ecc. Franklin invece ha un’intuizione: la blacklist può essere uno strumento attraverso cui attirare attenzione su tutte le sceneggiature promettenti ma ancora fuori dal recinto di Hollywood, capace di promuovere talenti stra-ordinari in un momento in cui le forze centrifughe del mercato sospingono verso una deriva di action movie spettacolari, impacchettati a regola di fabbrica, che poco spazio lasciano a tutto il resto. Il sondaggio di Leonard cresce in fretta, diventa virale tra gli addetti ai lavori finché nel 2007 il Los Angeles Times scopre finalmente la faccenda e scrive un articolo-outing che sottrae Franklin Leonard al suo anonimato e lo consegna così alla Storia: da lì in avanti, The Hollywood Blacklist diventa parte del gergo corrente Hollywoodiano, oggi un vero e proprio network rivolto a script buyers, sceneggiatori e loro agenti e rappresentanti. Una combinazione di parole che significa qualcosa di molto preciso in città: ogni anno, appena la lista viene pubblicata, LA brulica di starlet e attori vari che, iniziano a telefonare ai propri agenti cercando di farsi procurare il prima possibile questa o quella sceneggiatura.

Approssimativamente mille gli script blacklisted negli ultimi dodici anni, di cui oltre un terzo diventati film di successo. 264 nomination Academy conquistate, 48 statuette vinte, di cui 10 nella categoria Sceneggiatura e 4 Miglior Film. 26 miliardi di dollari in totale la cifra guadagnata al botteghino dai film le cui sceneggiature sono prima passate per la lista nera. Ma quali sono i modi in cui questa lista porta benefici reali all’industria, e perché sembra allo stesso tempo in grado di coadiuvare quei sentimenti di revanscismo liberal e silenziosa lotta progressista che da sempre informano lo spirito della comunità artistica di Hollywood? Va intanto detto che molti di questi film finora citati sarebbero probabilmente esistiti anche senza il nero intervento ex- machina. Molte sceneggiature riescono infatti ad intercettare l’interesse degli Studios anche prima di arrivare alla lista, che di per sé non assicura vita certa a un bel niente. A Hollywood, come del resto da qualsiasi altra parte, non è inusuale che script già acquistati o opzionati finiscano in uno stato di limbo. La blacklist può però funzionare come elemento accelerativo, attirando l’attenzione su un progetto e dandogli così una spinta e visibilità cruciali.

Ma se la blacklist aiuta coloro al centro e al capo della gerarchia – agenti, produttori, executives, attori – il sottogruppo che più ne beneficia è quello da tradizione meno fortunato: gli sceneggiatori. Quindi anche se non tutte le sceneggiature menzionate nella list diventano film, è sicuramente più probabile che le carriere degli sceneggiatori coinvolti subiscano slanci di popolarità, fama, e conseguente potere contrattuale. L’industria hollywoodiana, si sa, è un circolo chiuso, e c’è questo falso mito secondo il quale un aspirante scrittore dovrebbe solo trasferirsi a LA e fare network sperando di ottenere prima o poi un’offerta di lavoro per approdare prima o poi ad una vera e propria writing room. Questo tipo di fiaba americana può essere valida, forse, per un soggetto appena uscito da un’Ivy League (come lo stesso Franklin), o se alle spalle vi è una famiglia disposta a supportare il proprio pargolo mentre inizia a fare gavetta.

Per una ragazza madre del Mid-west con uno spiccato talento per la scrittura, quello appena descritto è sicuramente uno scenario impossibile. E questo purtroppo non ha niente a che vedere con l’avere talento per lo scrivere. Apparentemente, ad Hollywood non c’era nessun meccanismo efficiente prima della blacklist 2.0 in grado di aiutare aspiranti scrittori a fare in modo che il proprio talento non passasse inosservato. Ma è interessante anche notare come, oltre ad allargare l’imbuto attraverso il quale i nuovi talenti arrivano ad Hollywood, la blacklist di Leonard si configuri oggi anche come un servizio che crea comunità: all’interno del sito web infatti, oltre a poter consultare tutte le blacklist pubblicate dal 2005 ad oggi, vi è spazio anche per un paio di blog di cinema-e-scrittura, un forum accessibile agli utenti iscritti, podcast e social network correlati, happy-hour e incontri a cadenza settimanale, oltreché veri e propri table-read animati e moderati da attori famosi e personaggi dell’industria.

Questi eventi in particolare sono itineranti, generalmente aperti ad un pubblico pagante, e sono di per sé un meraviglioso esempio di Capitalismo in pratica. Si tratta infatti di un’offerta di intrattenimento che con grande astuzia serve sia come pre-test di mercato su di un singolo progetto, sia come strumento per creare hype e lavorare sul brand di una blacklist ormai implacabile. Queste letture glam aperte al pubblico, infatti, lavorano su quello che in americano si definisce «community outreach», in un gioco di specchi dal quale sembrano uscire tutti vincitori: la macchina di Leonard infatti attira interesse mediatico, genera forza lavoro ad hoc e produce utile, intesse partnership e rapporti con altre associazioni e teatri che ospitano gli eventi, e crea così un’illusione perfetta entro la quale blacklister e blacklistee possano ri-conoscersi, sullo sfondo di una silenziosa micro-gentrificazione ex tempore che mantiene viva la comunità anche all’interno del tessuto e dell’economia urbana, dentro e fuori Hollywood.

Leonard ha dichiarato di aver chiamato il suo progetto blacklist per poter finalmente associare la parola black a qualcosa di positivo, e anche per rendere omaggio a tutte le vittime dell’industria durante il maccartismo. A volte la Storia ci mette un po’, ma poi arriva un ribaltamento linguistico a ri-significare, in modo radicale ed opposto, quello che a Hollywood era sempre stato sinonimo di vergogna storica: nel nuovo millennio invece, The Blacklist è diventato equivalente di inclusione, diversità, partecipazione, esperimento di condivisione comunitaria e collaborazione «popolare», pur operando, in barba a tutte le gerarchie vigenti, all’interno di una élite di per sé chiusa e dalle regole finora apparentemente inespugnabili. Una rivoluzione silenziosa e piccolina, ma copernicana per gli standard hollywoodiani.