Se è vero come si dice che i Golden Globe, i premi dati dalla stampa estera a Hollywood «anticipano» gli Oscar, alcuni dei segnali emersi da questa edizione non fanno sperare granché – in realtà lo scorso anno La La Land prese tutto poi agli Oscar mancò la regia nello scambio di buste surreale.
Cominciamo dalla categoria del film straniero da cui è emerso vittorioso In the Fade, discutibilissimo – per utilizzare un eufemismo – film di Fatih Akin (in Italia lo distribuirà la Bim il prossimo marzo) che è anche nella shortlist degli Oscar: una storia di vendetta nella Germania di oggi dove una donna vede crollare tutto il suo mondo quando un gruppo di terroristi neonazi uccide in un attentato la figlia e il marito.

E perciò cerca giustizia individuale anzi privata, novella Charles Bronson bionda e ariana (Diane Kruger) sposata con un turco prima trafficante di droga ora consulente fiscale il cui ufficio di Amburgo va in polvere con lui e il bimbetto.
Altro segnale chiaro è l’esclusione di The Post di Spielberg che invece sembra tra i super favoriti nella corsa alla statuetta. Al duo Tom Hanks e Meryl Streep impegnati nel romanzo di formazione (americano) che è la storia del «Washington Post» – e di quella stampa democratica che il presidente Trump considera un fastidio – la giuria dei Golden Globe ha preferito Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh (in Italia uscirà giovedì) che ha conquistato quattro premi, miglior film, migliore attrice drammatica Frances McDormand, miglior attore non protagonista, Sam Rockwell, migliore sceneggiatura (dello stesso McDonagh).

Scrittura impeccabile in cui ogni singolo dettaglio trova la sua funzione, sorretta da attori grandissimi a cominciare proprio da McDormand, sull’America redneck e sulla rozzezza atavica dei cowboy che – come ha detto Camille Paglia – nemmeno Hugh Hefner è riuscito a smussare.
Rispetto alle previsioni anche il magnifico fantasy contemporaneo (più omaggio amoroso a Jack Arnold) The Shape of Water, altro titolo tra i gettonatissimi nella corsa all’Oscar ha preso «meno» seppure il massimo premio della regia a Guillermo Del Toro (e alla musica per Alexandre Desplat).

È invece il debutto alla regia di Greta Gerwig Lady Bird a venire premiato come miglior film nella categoria commedia, e alla protagonista Saoirse Ronan va quello alla miglior attrice (miglior attore è James Franco per l’interpretazione di Tommy Wiseau nel suo The Disaster Artist), mentre già si fanno strada le previsioni di una vittoria proprio di Lady Bird – storia al femminile girata da una donna – alla prossima cerimonia degli Oscar.

Al femminile, e femminista, anche The Handmaid’s Tale, la serie vincitrice – in linea con i riconoscimenti conferiti agli Emmy Awards lo scorso settembre – del premio alla miglior serie tv drammatica, mentre la protagonista Elisabeth Moss conquista quello alla miglior attrice. Altra serie vittoriosa della serata – nella categoria miniserie – è Big Little Lies, creazione di David E. Kelley per Hbo che porta a casa anche il premio alla miglior attrice protagonista – Nicole Kidman – e a quella non protagonista: Laura Dern, che nel suo discorso di ringraziamento tocca il tema principale della serata: «Spero che insegneremo ai nostri figli che far sentire la propria voce senza timore di ritorsioni è la nuova stella polare della nostra cultura», ha detto l’attrice riferendosi alle donne che a Hollywood hanno denunciato le molestie subite.

Come era annunciato l’edizione numero 75 dei Golden Globe, la prima dell’era dopo -Weinstein è stata caratterizzata, dal gigantesco terremoto provocato dalle accuse a di molestie che ha travolto – e continua a travolgere – molti dei protagonisti di Hollywood cancellati (vedi Kevin Spacey) in un solo attimo.
Dress code nero per donne e uomini – è l’iniziativa lanciata dal movimento Time’s Up fondato proprio da un gruppo di personalità di Hollywood per sostenere le donne più povere e vulnerabili che vogliono denunciare le violenze subite – le battute del presentatore, Seth Meyers – «Buonasera signore e ciò che resta di voi signori», i discorsi ufficiali tutto ha messo al centro la questione delle molestie sessuali, del #metoo.

«Per gli uomini nominati che si trovano in questa stanza stasera, sarà la prima volta in tre mesi in cui non saranno terrorizzati all’idea che venga pronunciato il loro nome», ha detto ancora Meyers. Non preoccupatevi, ha aggiunto il comico parlando di Weinstein, «tra vent’anni sarà di nuovo qui, quando diventerà la prima persona a venire fischiata all’annuale In Memoriam».
Escluso quasi del tutto anche il presidente Trump che lo scorso anno era stato invece il principale bersaglio dell’industria cinematografica. A parte qualche breve allusione: «Vi ricordate quando era lui a creare problemi con la Corea del Nord?» ha detto Meyers indicando Seth Rogen , autore nel 2014 del demenziale The Interview, in cui lui e James Franco interpretavano degli uomini incaricati dalla Cia di assassinare Kim Jong-Un, e che aveva suscitato le furie del dittatore. «Bei tempi», ha chiosato il conduttore, alludendo all’escalation di animosità con la Corea del Nord dovuta alle continue schermaglie tra Kim e Trump.

E come il conduttore dell’anno scorso Jimmy Kimmel, anche Meyers evoca il presidente Usa in riferimento alla Hollywood Foreign Press che conferisce i Golden Globe: «Tre parole che non potrebbero essere meglio pensate per far infuriare il nostro presidente. L’unico nome che lo renderebbe più rabbioso è L’Associazione Hillary Messico Insalata».

«Non ho l’abitudine di esprimere le mie opinioni politiche ma è formidabile essere qui e prendere parte a questo movimento di trasformazione radicale della struttura di potere della nostra industria» – ha detto durante il discorso di ringraziamento Frances McDormand, stupenda nel suo abito nero severo. In una serata altrimenti all’insegna – almeno apparentemente – di un compiaciuto senso di aver ristabilito la giustizia nel mondo, non è mancato un accenno di polemica quando Natalie Portman, chiamata a presentare il premio al miglior regista, è andata fuori copione e ha annunciato i nominati sottolineando come fossero «tutti uomini».

In assoluto, il discorso di cui più si è parlato, e il più applaudito della serata, è stato però quello di Oprah Winfrey – insignita del Cecil B. De Mille Award, e ora caldeggiata sui social network (anche da molte star) come candidata democratica nel 2020. Dopo un commosso ricordo del primo attore africanamerican ad aver ricevuto un Golden Globe, Sidney Poitier nel 1964, e la fiera constatazione di essere la prima donna nera a venire omaggiata con il premio alla carriera dei Golden Globe, anche Winfrey ha dedicato quasi tutto il suo monologo ai sommovimenti tellurici di Hollywood nel post-Weinstein.

Oprah ricorda però anche e soprattutto Recy Taylor, scomparsa il 28 dicembre a quasi novant’anni: «Un nome che conosco e penso dovreste conoscere anche voi. Nel 1944 Recy Taylor era una giovane moglie e madre. Tornava a casa dopo la messa a cui aveva partecipato a Abbeville, Alabama, quando è stata rapita da sei uomini bianchi armati, stuprata e abbandonata bendata sul bordo di una strada. Minacciarono di ucciderla se avesse raccontato a qualcuno quello che era successo».

Ma Recy Taylor, sostenuta da Rosa Parks, ebbe il coraggio di denunciare, di chiedere giustizia. Un giusto riconoscimento quello di Oprah Winfrey, se non venisse messo in relazione proprio con l’ondata di denunce a Hollywood – la «verità» di Recy Taylor, afferma la conduttrice e attrice, «è qui con ogni donna che decide di dire me too» – che appiattisce una lotta titanica come quella di una donna nera nell’Alabama degli anni Quaranta su quella di un’elite, smarrendo il senso delle proporzioni – e forse quello del ridicolo.