Stephen King non può smettere di scrivere. È prolifico come i grandi autori dell’800 e come loro rientra, nella divisione fondamentale tra i romanzieri da lui stesso tracciata, tra quelli che scrivono per il pubblico e non per se stessi. A differenza degli autori ottocenteschi non è incalzato dalla necessità economica ma dal bisogno di raccontare storie, usandole per descrivere l’America distante dalle metropoli, l’immensa provincia, la pancia degli Stati uniti.

SPRONATO dal suo stesso insaziabile bisogno di narrare, l’autore del Maine ha sperimentato nel corso del tempo diversi espedienti stilistici, dal ciclo monumentale della «Torre nera» al romanzo a dispense del Miglio verde. Ha miscelato l’horror con ogni genere di letteratura popolare, fino a creare ultimamente una sua versione dei classici investigativi, con la trilogia formata da Mr. Mercedes, Chi perde paga e Fine turno, già diventata negli Usa una serie tv di successo. The Outsider (Sperling & Kupfer, pp. 544, euro 21.90, traduzione di Luigi Briachi), il suo ultimo romanzo, fa parte a pieno titolo di quella serie.

MANCA IL PERSONAGGIO principale, il poliziotto in pensione Bill Hodges ormai morto, ma è sopravvissuta Holly Gibney, la ragazza borderline, fragile e fortissima, piena di fobie e paure eppure eroica nelle situazioni estreme che già nella trilogia rubava la scena al protagonista ufficiale.
Holly, «orfana» di Hodges, si occupa ormai solo di faccende inoffensive e la fiducia in sé che aveva iniziato a scoprire sotto la guida dell’ex poliziotto vacilla. Si ritrova alle prese con una situazione impossibile: killer efferati che massacrano bambini e cospargono la scena del crimine di prove e che tuttavia sono anche da tutt’altra parte, con alibi inattaccabili e testimoni a discarico. Anche il lettore più ingenuo capisce sin dalle primissime battute che qualcosa di non umano, l’«Outsider», è in grado di assumere le fattezze di chiunque per poi uccidere impunemente, nutrendosi della paura delle vittime, del loro terrore e della disperazione dei parenti, non meno che dei corpi.

MAI COME IN QUESTO CASO, però, Stephen King rende esplicito il segreto della sua narrativa, la chiave del suo realismo mascherato da fantasia sfrenata. I protagonisti, Holly e Ralph Anderson, poliziotto in una piccola città dell’Oklahoma, scoprono che non c’è poi una grande differenza tra questo vampiro che si nasconde dietro i connotati di insospettabili bravi cittadini e i mostri reali, gli assassini seriali come Ted Bundy, che ad averceli come vicini di casa sembrano spesso bravissime persone. In un dialogo col mostro, inedito anche negli oltre cinquanta romanzi scritti dal maestro del Maine, il vampiro si giustifica, cerca di farsi assolvere accampando alibi morali. Proprio come farebbe un killer seriale in carne e ossa.
Holly, la detective dell’incubo, entra però in scena solo quando la narrazione è già avanzata. La lunga prima parte del libro, che regge il confronto con il King delle opere maggiori, non serve soltanto a introdurre il mistero del killer capace di rubare non solo le fattezze ma anche le impronte digitali e il Dna di chiunque. Racconta le reazioni di una tipica small town americana, una di quelle in cui tutti si conoscono, sconvolta dall’invasione improvvisa dell’atrocità.

NON SI PUÒ BIASIMARE nessuno per l’arresto di un cittadino che pareva esemplare ed è indicato invece come il seviziatore di un bambino di 11 anni da una folla di testimoni e una miriade di prove. Ma la scelta di arrestarlo di fronte a migliaia di persone e ai suoi stessi figli, i sospetti di complicità che si addensano sulla moglie e persino sui figli, nutriti anche dai migliori amici, la campagna d’odio che dilaga in poche ore, l’uso cinico che del caso fa un procuratore in cerca di teste da tagliare per garantirsi la rielezione non sono invece un atto dovuto. Sono a loro volta una faccia del male e non solo perché il malcapitato in manette è in realtà innocente. Lo sarebbero comunque anche se fosse, come tutto sembra indicare, colpevole.
Qui King non mira semplicemente a ricordare che, pur a fronte a prove apparentemente schiaccianti, il presunto colpevole potrebbe essere innocente. Vuole invece inchiodare la barbara sete di vendetta che anche l’indignazione più giustificata evoca, la spietatezza dei giusti, il cinismo dei media e dei politici. Quella zona d’ombra che alberga in chiunque e che spiega, molto più di improbabili nostalgie per il Reich, l’America di Trump. O l’Italia di Salvini.