Ando Hiroshige – borghese, urbano, compassato – è il Manet dell’Ottocento giapponese, Katsushika Hokusai ne è invece, da una parte il Courbet, per rudezza realistica, dall’altra, soprattutto, il Picasso, per titanismo sperimentale. Quest’ultimo aspetto, il più evidente nella solenne mostra di Parigi, Grand Palais (curata da Seiji Nagata e aperta fino al 18 gennaio), ha costituito, nella letteratura critica sul «vecchio pazzo per la pittura», un serio problema in sede di valutazione qualitativa, essendo all’origine di una produzione troppo abbondante, anche lasca e perfino triviale. Un conoscitore certo come l’americano Richard Lane, responsabile di una monografia che tende al catalogo ragionato (1989, è disponibile anche in italiano, edita da Alauda Editoriale, 1991), ha deplorato gli eccessi di Hokusai, la sua ansia di battere strade sempre nuove, quasi a voler stupire permanentemente, in primo luogo se stesso, fino all’estrema vecchiaia (nato nel 1760, morì, nel 1849, 89 anni dopo). Di quest’ansia testimonia il fatto che abbia modificato il nome d’arte ben trentuno volte, abusando di una pratica tradizionale delle botteghe artigiane giapponesi, e il luogo di residenza addirittura novantatre, al punto che una guida del tempo lo definisce «senza fissa dimora».
Solo l’allargarsi delle conoscenze lungo il Novecento ha reso possibile una valutazione discretamente obiettiva di questa fluviale avventura estetica, ma di Hokusai ancora non esiste – lo ha voluto sottolineare Gian Carlo Calza nella recensione alla mostra parigina sul Sole 24 Ore – un corpus abbastanza fermo e attendibile. Si consideri che egli, come artista universale, nasce di fatto in Occidente verso la fine dell’Ottocento, tra Francia e Inghilterra (qui, nel 1880, furono stampate in anastatica le Cento vedute del monte Fuji), e nasce in relazione alle inquietudini più o meno formalistiche del post-impressionismo, quando l’arte piatta e senza ombra, laconica ma fastosamente colorata, dei giapponesi offrì una chiave per superare, con processo di sintesi, il naturalismo percettivo precedente. Ma mentre in Europa gli artisti e i critici d’avanguardia ne erano affascinati, non altrettanta fortuna aveva Hokusai in patria, dove anzi era considerato, sostanzialmente, un volgarizzatore della tradizione ukiyo-e, cioè dell’arte xilografica del periodo Edo (1600-1868; Edo è l’antica Tokyo). La fase mitologica della fortuna occidentale di Hokusai, che anche produsse letture acutissime, da quella inquietamente salottiera di Edmond de Goncourt (1896), a quella magica, velatamente romantica, di Henri Focillon (1914), è stata non poco responsabile, però, di un approccio su cui poteva fiorire l’apologia, cioè un genere nemico della conoscenza e foriero di inciampi critico-attributivi.
La mostra del Grand Palais si articola sui sei momenti, designati da un diverso nome, che per convenzione, tra gli studiosi, descrivono la parabola di Hokusai: Shunro (1778-’94), Sori (1794-1805), Hokusai (1805-’10), Taito (1810-’19), Iitsu (1820-’34), Manji (1834-’49). Al centro di questo percorso, immerso in una sobria penombra per evidenti motivi di conservazione, vengono presentati, a cascata, i celebri fogli dei Manga, cioè quel repertorio fin troppo abbondante di schizzi a scopo didattico che Hokusai prese a realizzare verso la metà del secondo decennio dell’Ottocento: una teoria inesauribile di posizioni del corpo umano e di morfologie naturalistiche che mostra l’accanimento verso la realtà e i suoi segreti da parte del «contadino di Katsushika» – Katsushika è il distretto periferico, quasi campagna, del sobborgo di Edo dove Hokusai aveva visto i natali.
Forse la mostra ha ecceduto sul versante della produzione servile, quella dei romanzi storici e eroici in gran voga al tempo, che occupò gran parte delle energie di Hokusai, e le cui illustrazioni, su cui Focillon favoleggiava, andrebbero delibate piuttosto che consumate massicciamente. Si dice «servile» posto, però, che l’intera produzione ukiyo-e va sotto questa sigla, almeno dal momento in cui, verso il digradare del Settecento, i ritrovati tecnici e le aspettative del pubblico non ne consentono l’espansione commerciale – siamo all’altezza, prima del ‘senese’ Harunobu, poi del corposo illustratore del mondo kabuki, nonché maestro di Hokusai, Katsukawa Shunsho. La xilografia colorata giapponese, considerata volgare rispetto all’aulicità delle scuole classiche (Kano, Tosa), realizza per la prima volta nella storia, cioè, l’arte di massa, e ancora ci si chiede come il suo carattere fortemente seriale abbia potuto convivere, ancora ben dentro l’Ottocento, ancora al tempo dei cosiddetti decadenti, con un alto livello di qualità: nell’Ottocento giapponese non esisteva avanguardia, e le novità formali erano prerogativa dell’arte popolare.

Altri tre rilievi si possono fare all’esposizione parigina: uno, già notato da Calza, è la presenza di dipinti dall’incerta attribuzione, quando è proprio sul versante della pittura, il meno conosciuto, che si gioca oggi, soprattutto, la valutazione complessiva di Hokusai; l’altro è la quasi assenza delle matrici in legno, queste macchine della meraviglia, che al contrario si imponevano, con la loro remota rusticità, nella precedente occasione parigina dedicata a Hokusai, al Centre Culturel du Marais, nel 1980. L’altro ancora, ultimo ma non ultimo, è la mancanza di confronti, sia con l’arte tradizionale, sia con quella ukiyo-e, che nel caso di Hokusai è doppiamente grave, trattandosi di un artista dalle mille facce, i cui frequenti cambiamenti, più o meno repentini, disorientano. Non si capisce come si possa familiarizzare almeno un po’ il nostro pubblico con un linguaggo che resta per molti versi segretissimo senza uno sforzo di tipo storico-analogico – anche la mostra di Milano, 1999, soffriva di questo vizio: il risultato è un’immagine estetizzante e stereotipa.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando Félix Bracquemond, nel 1856, poté incrociare per la prima volta Hokusai, a Parigi, nei fogli di un volumetto utilizzati per imballare porcellane; da quando Monet, nel 1871, secondo il racconto di Mirbeau, ne acquistò stampe da un droghiere olandese, che se ne serviva, anch’egli, per incartare, ma trovava la carta – la meravigliosa carta ‘soffiata’ dei maestri ukiyo-e – poco robusta allo scopo. Oggi le prime tirature delle stampe di Hokusai, le poche risparmiate dal pianificato repulisti di conoscitori incantati tipo Frank Lloyd Wright, sbancano sul mercato antiquario.
Dopo una veloce entrée di omaggio francese a Hokusai (arti decorative, oltre alla Parigi giapponese delle litografie di Henri Rivière), l’inizio della mostra è dedicato alla giovinezza nella bottega di Shunsho, dove, insieme ai rudimenti dell’arte xilografica, Hokusai, con il nome Shunro, impara ad addestrare, in via definitiva, il suo sguardo brutalmente realista: è vero che, già inquieto esploratore, passa al vaglio tutta la recente e recentissima tradizione ukiyo-e, compresa la stampa di prospettiva, occidentalizzante, che faceva capo alla scuola di Toyoharu, nondimeno è proprio la violenta stilizzazione del reale proposta da Shunsho, sulle cui stampe gli attori kabuki diventavano per la prima volta persone, a tracciare il suo destino di artista. Peccato che fra gli esempi di questi anni d’esordio non figuri neppuro uno dei lottatori sumo, questi «pachidermi in amoroso amplesso» (Lane) che indicano nel modo più esemplare l’impronta rude dell’apprendistato da Shunsho.
Ancora sotto Shunsho, tuttavia, Hokusai, con un’intraprendenza non contemplata nelle abitudini delle botteghe ukiyo-e, aveva cominciato ad avventurarsi in ricerche personali sulla pittura classica dei Kano, che gli spalancava di fronte l’immenso repertorio della tradizione cinese, su cui modellerà la parte forse più deteriore della sua attività, ma anche gli correggeva la mano quanto a pennellata, facendone un grande pittore come non erano, in genere, i maestri xilografi: è il cosiddetto periodo Sori, a cavallo fra Sette e Ottocento, contrassegnato peraltro da alcuni vertici a stampa come certe figure di cortigiane, in cui Hokusai recupera, senza entrare in concorrenza con Utamaro, maestro in questo settore, la nobiltà fragile e quasi bambina di Harunobu e, ancora di più, il senso di accoratezza romantica che entro quella nobiltà aveva iniettato Buncho: è incredibile, ma pure segno di una versatilità al limite dell’eclettismo, che un ‘contadino’ come Hokusai abbia potuto raggiungere tali livelli di grazia. Ci sarebbe comunque da discutere, quanto a stampe di cortigiane, l’assenza totale in mostra di esempi shunga, dove la grazia è passata al vaglio̶ ludico, violento, allucinato̶ dell’ardore sessuale: non vogliamo pensare a una scelta dettata da pruderie. Il momento Sori, che insieme al momento Iitsu con Le trentasei vedute del Fuji resta il più alto qualitativamente, vanta anche il meglio delle stampe di auguri surimono, sulle quali si incapricciava Edmond de Goncourt, magiche e sospese per economia di segno e di colore. Riceverne oggi, di questi bigliettini!
Dal 1805 circa, fino alla fine del secondo decennio, l’operare di Hokusai è implicato soprattutto nelle pressanti richieste del mercato editoriale, che ha scoperto il filone del romanzo «gotico», per il quale tornano utili al maestro le vaste conoscenze degli stili cinesi, su cui egli innesta però una forza drammatica quasi shakespeariana – tutta giocata sugli incastri aguzzi e corazzati dei movimenti e dei gesti – , che ritroveremo nel primo Kurosawa. Contemporaneamente comincia la realizzazione, per gran parte dispersiva, dei Manga. E, in ambito vedutistico, prosegue la ricerca sul modulo occidentale, che Hokusai aveva scoperto, in particolare, nelle opere dell’affascinante pioniere del genere, Shiba Kokan, il quale aveva fatto fruttare oltre ogni dire la scarsissima presenza di incisioni europee nel mondo chiuso e catafratto del Giappone degli shogun.
Solo negli anni venti, sessantenne, Hokusai sembra in grado di dare una direzione più definita al suo vorace indagare, e nasce, a partire dal 1823, la prima serie del monte Fuji, quarantasei stampe in definitiva, anche se nel titolo trentasei. Migliori del successivo Fuji in cento vedute, queste xilografie, parche nel colore su una gamma verde-giallo-azzurro, insieme precise e rarefatte, hanno riempito di meraviglia le ‘avanguardie’ occidentali al loro primo apparire in Europa, subito dopo la fine (1853) dell’autosegregazione nazionale giapponese. Tale meraviglia si spiega in virtù di una formula che implica la nostra tradizione prospettica, ma in modo ben più straniante che nell’arte di un campione del genere ‘occidentale’ come Toyoharu. Le stampe Fuji di Hokusai sono in realtà un capolavoro di amalgama stilistico: la prospettiva si pone quasi in termini fantasmatici, compare, scompare, continuamente dialettizzata da un ben diverso principio decorativo, tutto giapponese, che tende al piano e suggerisce la profondità tramite fasce orizzontali chiuse, sovrapposte, staccate cromaticamente – è anche da questo principio che Émile Bernard e Gauguin avrebbero tratto alimento, a Pont-Aven, per mettere a punto il cloisonnisme e rompere con l’illusionismo ottico degli impressionisti. Nella costruzione paesaggistica di Hokusai, in ogni caso, la struttura disegnativa – egli è e rimane, innanzitutto, un eccelso disegnatore – difficilmente riesce a mascherarsi entro gli effetti dell’atmosfera: troppa è la tensione decorativa. Al contrario Hiroshige sarà l’artista atmosferico per eccellenza.
Con le vedute del Fuji gli europei scoprirono gli immensi e arcani spazi del paesaggio giapponese: le considerarono un nuovo capitolo, tanto più esotico, del Sublime. In realtà non è al sublime che mirava Hokusai, ben più interessato alla rappresentazione degli uomini, quei contadini e artigiani, operosi ma anche indolenti e giocondi, sul cui tipo, da piccolino, fra i ciliegi della sponda esterna del fiume Sumida, aveva modellato la sua immagine dell’esistere. Popolare e fin plebeo, sostenuto da una religiosità favolosa di base shintoista, che non disdegna le apparizioni terrifiche come nei perturbanti Cento racconti di fantasmi, e ama liricizzare i destini individuali, per esempio nella solitudine che avvolge la serie Vero specchio dei poeti di Cina e di Giappone, Hokusai si sentì sempre estraneo al mondo chiassoso e materialista della borghesia di Edo. Un’estraneità che spiega forse, in parte, la sua idolatrica ricerca di perfezione in quell’altrove che è il mondo delle forme: di qui, anche, non poche cadute, perfino e perfino di più negli anni finali, che immaginava destinati, piuttosto, al compimento supremo. Ma non voleva cedere e «pur come un fantasma / calpesterò allegramente / le brughiere d’estate» è lo haiku di commiato.