Forse un museo può generare un nuovo pezzo di città, e non solo in senso figurato. È quel che viene da chiedersi se si attraversa l’estensione di David Chipperfield della Royal Academy, un collegamento fra due corpi espositivi dove i grandi gessi che servivano da modello – siano dell’Ercole Farnese o del Fauno Medici – sono collocati in nicchie di passaggio, fra il cemento e i mattoni. E funzionano benissimo. Un Antico mai rimosso può così proiettarti in giardini lontani, anche se lo scenario è metropolitano. Peccato che nella furia rinnovatrice di Londra qualcosa di buono vada perso: la sistemazione del Tondo Taddei di Michelangelo – uno dei migliori interventi di Norman Foster (1991), tutta giocato su un interstizio – è stata per esempio smantellata, in favore di un nuovo e generico allestimento sulla storia della Royal Academy, che da Joshua Reynolds conduce a dimenticabili copie del Cenacolo o degli arazzi di Raffaello.
Per ritrovare i giusti rapporti fra le opere e i luoghi, conviene andare al Sir John Soane’s Museum; non solo per aggirarsi fra marmi e calchi, medaglie napoleoniche, progetti di cappelle funerarie e vedute piranesiane dei templi a Paestum. La mecca per lo spirito collezionistico dei dilettanti ospita ora il più moralista dei pittori del Settecento, William Hogarth Place and Progress (fino al 5 gennaio, catalogo pp. 144, £ 24.95). L’occasione fa ragionare sulla coppia. Anche per via del percorso: non c’è bisogno di confinare le mostre in stanze separate dalle esposizioni permanenti, se si tiene sempre stretta la rete di relazioni che propone un museo.
Fra Hogarth e il padrone di casa gli anni di differenza sono cinquantasei: troppi. Hanno vissuto due Londre diverse, e ci sono passaggi di proprietà delle opere che illuminano certi gap nella ricezione. Prima di approdare nelle collezioni di Soane, la serie di dipinti del Rake’s Progress viene comprata all’asta dal padre di William Beckford. Quanto dovevano rivelarsi insignificanti, quelle scene di vite sprecate, agli occhi dell’autore del Vathek, che terminate le orge aperte a entrambi i sessi, si ritirava nella torre gotica a scrivere il suo sogno d’oriente! Quando i debiti stremarono le forze dei Beckford, Soane era lì, a comprare i dipinti di Hogarth: e li comprò cari. Avrebbe speso di più solo per il celebre sarcofago egizio che è il vertice della sua piramide museale rovesciata. Soane sa bene, come Hogarth afferma nel suo finale Tail Piece (1764), che la fine del mondo può essere un paesaggio di alberi secchi e impiccati all’orizzonte, con un Tempo stanco di girare la clessidra e di fumare la pipa. Hogarth aveva raccontato di poveri sempre più incattiviti, dal gin e da facili possibilità di guadagno, e affannati in scalate sociali condotte senza scrupoli.
Anche ai suoi stessi danni: quando la serie di dipinti dell’Harlot’s Progress va distrutta in un incendio, sempre a Fonthill House nel 1755, rimangono le stampe, ma vengono presto falsificate. Il successo ai danni dell’incisore va quindi stemperato nella sfortuna del pittore, e questo dovette generare una certa malinconia. Che si traduce in vera e propria acredine. Quando Hogarth pubblica le stampe che illustrano cosa riserva il destino a chi si comporta male, The Four stage of Cruelty (1751), il maltrattamento degli animali è solo il primo stadio di una degenerazione che culmina in stupri e assassinii, ma il peggio spetta al malfattore, accecato e sventrato dai giudici di una corte che lo ha disteso su un tavolo anatomico.
Al tempo di Soane, c’è chi dice che il genio di Hogarth non sia fatto di sola ironia e si spendono i primi paragoni con Shakespeare. Sarebbe stato felice l’artista che fra i suoi migliori amici annoverava William Garrick, un attore che restituiva interiorità ai Riccardo III. L’unità di luogo nelle Four Times of the Day (1736-’37), dipinti riuniti in mostra da varie country houses, sta fra Covent Garden, Soho e la City. Coppie mal assortite o ugonotti agghindati per la messa si barcamenano in strade dove gli straccioni per scaldarsi appiccano falò, tanto che le carrozze si schiantano senza appello. Questa sfilza di «Modern Moral Subjects» arriva a compimento con il Marriage-à-la-mode (1743-’45). Tom Jones non era ancora uscito, ma la penna di Henry Fielding aveva già iniziato a irridere gli intoccabili della letteratura e della società. In pittura, si ricordano poche vicende altrettanto memorabili della stesura del contratto matrimoniale fra un nobile che sciorina i suoi titoli e il mercante occhialuto che si affanna a capire quanti soldi va perdendo. L’investimento è su una figlia che godrà dei servizi di parrucchieri e maestri cantori, prima di assistere alla morte del marito, riportato a casa dopo un duello, mentre dalla finestra un amante se la svigna. Da giovane, lui è uno dei personaggi più belli di tutta la pittura del Settecento: ha lo sguardo spento e le mani in tasca, seduto in un salone dove ogni oggetto denuncia un’ereditata assenza di gusto. E il barboncino che annusa quel che gli pende dalla tasca del cappotto racconta delle sue frequentazioni notturne.
Soane avrebbe approvato questo commento scritto sui suoi Hogarth, in una descrizione sulla sua casa che appare nel 1827: «They are subjects for intense study, not casual inspection; and like the profound writings of a Shakespeare, or the vivacious and pungent productions of a Sterne, they afford an exhaustless theme for perusal and reflection». I sei dipinti del Marriage-à-la-mode erano appena stati esposti nel primo allestimento della National Gallery, quando la sede del museo era la casa del banchiere John Julius Angerstein, appena acquistata per il bene della nazione. Soane poteva ormai rubricare sotto la voce «classico» la pittura di Hogarth, sostenendo che quello era l’apporto inglese a una storia tutta da riscrivere, con i materiali a sua disposizione.
Se non producevano giudizio, per Hogarth i soggetti erano quasi da buttare; inseriti negli allestimenti di casa Soane, i suoi quadri avrebbero trovato compagni meno amari. Nessun dipinto di Jan Steen o di Pietro Longhi o persino di Gaspare Traversi avrebbe potuto funzionare al cospetto degli Humours of an Election (1754-’55), quattro tele installate da Soane nei suoi sportelli apribili della seconda Picture Room, che conteneva 118 opere, fra dipinti e disegni. Hogarth stava insieme a Canaletto: quasi un’anestesia. Ma la luce equilibrata che filtra dai lucernari laterali di quella galleria offriva una restituzione perfetta per quella generazione di curiosi, il cui approccio oggi suscita rinnovati interessi.
Frutto tardo di un collezionismo illuminista, ma non necessariamente enciclopedico, quello spaziare a proprio piacimento fra secoli e geografie dichiarava anche fino a che punto si era giunti nell’esplorazione del naturale e del pensiero. Non è solo un punto di partenza del Moderno – come dichiara l’evocazione di figure e oggetti prodotta nella Enlightment Gallery del British Museum – ma anche un modo attuale di scrivere le narrative del museo (un libro che si può prendere è The return of curiosity di Nicholas Thomas). Nelle scene di Hogarth, dove gli interni sono pieni zeppi di capolavori di pittura, i frequentatori dei saloni a mala pena si ricordano dei nomi degli autori. I dilettanti non erano propriamente i progenitori dei conoscitori, ma almeno si divertivano a favoleggiare sui miti dei vasi greci. E le disposizioni degli oggetti erano pensate per favorire le possibilità di discutere.