Karl Kraus, come si sa, non amava Hofmannsthal: a fine secolo lo aveva liquidato insieme ai letterati da caffè che inondavano di fremiti parigini la vita culturale viennese e aveva processato il suo umanesimo malinconico e inattuale, bocciando senza appelloquella propensione per le altezze «che si fanno sempre più alte», tanto alte da sfuggire anche al suo affondo da patologo.
Ironico, Kraus liquida anche il mito italiano di Hofmannsthal, un materiale ricchissimo e variegato in bella vista nel laboratorio del poeta, fatto di viaggi, incontri, pensieri e sontuosi fondali di tanti suoi scritti, dal dramma lirico dei diciassette anni, Gestern (Ieri) quando ancora si faceva chiamare Loris, al romanzo meraviglioso e incompiuto Andrea oder Die Vereinigten (Andrea o i ricongiunti) pubblicato postumo nel 1932. Lo riduce a una versione borghesuccia e epigonica del pellegrinaggio di Goethe al sud, tra il 3 settembre 1786 e il 18 giugno 1788, su cui aveva costruito il suo mito di poeta classico e quello di una terra ostinatamente felix. «Una vita davvero goethiana – scrive il moralista dalla stanza delle torture equipaggiata a parole taglienti per i molti che non gli andavano a genio – viaggio in Italia, pensione compresa e in un tempo relativamente breve».

Sono molte le cose di Hofmannsthal che Kraus vuole gettare nel pattume della moderna inconsistenza: l’umanesimo misticheggiante, le preziose genealogie, la forma troppo ineccepibile, quasi femminea; per corollario, liquida anche, come fosse una brutta copia, la descrizione di quel «breve» viaggio italiano che Hofmannsthal fa nel 1903 e di cui lascia una cronaca suggestiva e spiazzante, Sommerreise (viaggio estivo).
In realtà, a prescindere dalla difficoltà a immaginare Hofmannsthal, raffinato e aristocratico più di quanto il sangue gli avesse concesso, a fare il pensionante in qualche alberghetto italiano, Kraus va troppo per le spicce nel smerciare la escursione italiana del suo conterraneo – e la sua descrizione – come una pallida copia del viaggio goethiano. Gli si può concedere che il modello della Italienische Reise di Goethe sia dilagante nella cultura tedesca dell’Ottocento. Un Baedeker dell’animo, ugualmente amato da esploratori, sognatori, uomini inquieti in cerca di riscatto nella bellezza e nell’eros e anche solo da giovanetti costretti al grand tourdai precettori. Per l’autore dei Dolori del giovane Werther, in crisi di produttività e di coscienza, l’Italiaera stata un’occasione di rinascita: all’arte, alla scienza e alle emozioni. Aveva stretto alleanza con le regole del classicismo, aveva approfondito le conoscenze della natura e degli uomini, visto e vissuto ciò che aveva solo studiato, respirato la fascinazione del paganesimo e, soprattutto, era stato profondamente felice. «Ora mi sento contento e ispirato sul classico suolo;/ voci passate e presenti con forza mi parlano. / Qui seguo il consiglio e mi dedico alle opere degli antichi / con mano assidua, ogni giorno con nuovo diletto» – scrive nelle Elegie romane. Non importa quanto fosse fedele: la descrizione di quel viaggio da Carlsbad fino a Palermo, ricostruita a trenta anni di distanza col piacere che hanno i ‘grandi’ vecchi a idealizzare la propria vita, rappresenta, comunque, un esempio destinato a durare.

Ci sono poi rispecchiamenti tutt’altro che ingenui tra la Italienische Reise e la Sommerreise. L’itinerario prima di ogni altra cosa: Goethe dal Brennero era andato a Verona, si era poi spinto fino a Vicenza solo per ammirare i monumenti di Palladio e proseguire poi verso Venezia; Hofmannsthal era rimasto poco più a oriente, dalla valle d’Ampezzo si era spostato verso Castelfranco Veneto, quindi era giunto a Vicenza, anche lui in omaggio alla Rotonda palladiana. Simili i monti, le pianure, i borghi e gli entusiasmi; simile la scelta di Palladio come meta (provvisoria) del pellegrinaggio.
Per entrambi l’Italia è generosa consigliera per tempi di smarrimento. Goethe che ‘fugge’ da Carlsbad travestito e sotto falso nome è un uomo incerto sulla sua vocazione; poi, in Italia, completa in limpidi versi l’Ifigenia in Tauride, il dramma con cui si celebra l’inizio di una nuova stagione nella sua vita e nella sua poesia; Hofmannsthal aveva appena pubblicato, dopo mesi di pagine dismesse, la Lettera di Lord Chandos, patografia di fine secolo e del linguaggio delle convenzioni.Chandos, nobile inglese e scrittore dilettante, aveva scelto il silenzio, mentre Hofmannsthal rinunciava con quel libricino alla lirica cercando di espiare l’estetismo della giovinezza; poi aveva cominciato a pensare a una tragedia moderna, l’Elektra, e a immaginare una nuova vita come drammaturgo accanto a artisti di quelli che «sanno realizzare i propri sogni», come saranno per lui Max Reinhardt, il regista, e Richard Strauss, il compositore.

Eppure nulla di più lontano di quell’atto unico novecentesco dai cinque atti di Iphigenie, con le loro unità e la visone idealizzata del mondo in cui trionfa l’armonia tra dovere e desiderio per una umanità idealizzata e ben protetta dalla storia. Elektra, invece, incunea nella storia dei figli di Agamennone la patologia di Anna O. di cui racconta Breuer e, soffocata dal trauma, soffre e muore maniacale e impotente.
Come Elektra anche Sommerreise certifica il distacco del poeta di Rodaun dalla grande tradizione letteraria tedesca: non più epigono, ma orfano in cerca tra malinconia e entusiasmi di una nuova identità per sé e per la poesia.

Scriveva Goethe il 9 marzo del 1787 una volta giunto in Arcadia ancora dolorante per le delusioni amorose e artistiche della piccola e ambiziosa Weimar: «Il piacevole quando si viaggia è che anche quello che è abituale assume i caratteri di una avventura attraverso la novità e lo stupore». Lo scrittore settecentesco che voleva rinascere nello spirito dei classici, nella ricerca dell’originario e negli amori plebei si lascia guidare dallo spirito dell’avventura, mentre Hofmannsthal che, sfrontato, popoladi immoralisti e avventurieri i palazzi italiani e le calli di Venezia fa del viaggio l’occasione di un sogno sul terreno scosceso di sinestesie aspre e spiazzanti. Le strade si dividono. Goethe non rappresenta più per Hofmannsthal una guida, dunque se ne allontana, non senza un gesto di sfida: per costruire nel viaggio – in quell’Italia confinaria che non promette tutte le dolcezze del Sud – una poetica nuova.

Sorprendente, incomprensibile a tratti, la descrizione di Sommerreise non concede nulla alla consumata retorica delle cronache di viaggio, fatta di aneddoti, curiosità e sorprese; non interessano allo scrittore viennese le aspettative del lettore filisteo (contro cui si scagliava sprezzante Heine) in cerca di accademie itineranti di piacevolezze culturali, né intende offrire le consolazioni romanticheche, regressive, che guardano alle origini, al magma dell’indefinito.

Hofmannsthal è impressionista, ama la forma breve e l’esperienza illuminante, i crocicchi più delle strade che fanno intravedere una meta, ma soprattutto crede nella forza trasfigurante e magica della poesia. Invita allora a lasciare alle spalle, insieme alla patria’, tutti i segni dell’utilità e dell’obiettività borghese, i criteri dell’utile e della ragionevolezza, nella prospettiva di dilapidare la falsa concretezza delle cose e dell’Io (quell’Io ormai insalvabile di cui parlava Mach) costruendo sul disorientamento nuove prospettive emotive e spirituali di conoscenza.
Nelle Lettere di un rimpatriato scritte da Hofmannsthal nel 1907, storia di un «ritorno» che la struttura epistolare trasforma in scavo interiore, il protagonista, uomo d’affari che ha conosciuto i continenti, è costretto nel suo nostos a confrontarsi con il carattere sempre più sfuggente della realtà: «In questi mesi guardando la realtà, ho perso tutte le mie idee e non so bene cosa abbia preso il loro posto: un senso di scissione di fronte al presente, un diffuso stordimento, un disordine interiore al limite della insoddisfazione – e quasi per la prima volta mi succede di essere invaso dal sentimento del mio Io» (Prima lettera). La riflessione sospende il viaggio, lo trasforma in digressione sconvolgendo l’ordinata percezione delle cose. Perché non si tratta di barattare la normata vita borghese con qualche trasgressione prudentemente storicizzata. Si tratta di essere punto di fusione di vita e morte, sogno e realtà, passato e presente.

Per fare dell’itinerario la metafora di un perdersi e ritrovarsi, la strada va consumata in modo diverso. Come del resto le avanguardie storiche che violano funamboliche la specificità codificata dei linguaggi, fino al chiassoso colorismo sonoro degli espressionisti, Hofmannsthal fa smottare la ragionevolezza cronologica del viaggio sul ritmo di un flusso associativo, che scompone gli avvenimenti e si ribella alle cronologie: perché – scrive – «l’uomo può immaginare senza comprendere, amare senza saper definire».
Il viaggiatore avverte in Sommerreise il lettore, come si avverte dei pericoli di una strada bagnata, e chiede di seguirlo senza opporre resistenze: «Questo viaggio di tre giorni appare già come un sogno. Eppure fu reale: reale come andare alla fontana, chinarsi, spegnere una grande sete nell’acqua ghiaccia, che scorre dalla roccia; reale come un desiderio di frutta, di frutta morbida e soda, fresca dentro, profumata, rivestita di lanuggine, un appoggiare la scala, salire, spiccare, assaporare, appisolarsi nella chioma di un albero». Un intrico di metafore che alludono alla presenza di piani diversi di lettura, sempre più esoterici e sempre più colti, con riferimento a filosofi e filosofie, a poeti del passato e a quelli più moderni, alle quadrerie dei musei e a quelle dell’anima. L’involucro è una prosa ricca e suggestiva, in una lingua vaga, uniforme e sognante, il contenuto e la costruzione del testo seguono invece – per chi voglia coglierla – una struttura assai rigida.
Tre i giorni, tre le tappe, tre i paesaggi descritti e attraversati, tre i livelli di esperienza evocati con un linguaggio che vuole blandire e stupire, che si fa musica, colore e luce come fosse l’invito di un ipnotizzatore. «La sua via era quella dell’acqua che corre crosciando a valle. La sua meta era il paese dell’estate, là in basso. Un colle più degli altri incoronato a festa […]; uno stagno incastonato come una gemma dai riflessi purpurei nel verde della collina; un castello dai cui ruderi rossobruni cresce il fico […]; un folto d’alberi […]e i cui tralci ancora oscillano della fughe d’umide, luminose creature». Tre gli stadi della conoscenza, come avevano insegnato i neoplatonici che Hofmannsthal nelle Terzine della labilità traduce «materia, uomo, sogno».
Nel disordine, solo apparente, delle impressioni si avventura nei i ‘suoi’ territori asburgici, dove tutto – nota Curtius – per storia e per cultura già gli apparteneva. All’inizio c’è la zona montana della valle d’Ampezzo, con rupi aspre e intransitabili, centri sospesi, fontane e ponti, campanili lucenti e animali sbadati; poi le colline di Castelfranco Veneto, dove «l’impetuoso incalzare dei monti si scioglie in beata quiete».

Qui, in un idillio di borghi e di acque placate tra peschiere, statue e loggiati, compare la storia, storia rinascimentale di eserciti e condottieri, insieme al ricordo dei grandi pittori della scuola veneta legati a quei luoghi nel nome, nelle vedute e nei colori: Morto da Feltre, Paolo Veronese, Cima da Conegliano, Pordenone e Bassano, Pellegrino da San Daniele, Bordone da Treviso e, soprattutto, Giorgione.
Poco più di un viaggio nel boudoir poteva essere questo riferimento mentre a Vienna impazza la moda del Rinascimento. Hermann Bahr, mentore di giovani letterati, descrive così, nella Secession del 1900, un interieur della capitale: «Un’altra sala è grosso modo in stile veneziano… Rosso il tappeto, stoffe rosse […]. Come sopraporta una donna nuda su un trono, un drappo rosso ai suoi piedi. E tutt’intorno copie da Tiziano e da Giorgione». Hofmannsthal non si lascia ingannare da questo Reinassancismus (così si chiamava allora) e ne parla con ribrezzo a Strauss che voleva irretirlo in un nuovo libretto ambientato nell’Italia del tempo.
Il Cinquecento di Hofmannsthal è piuttosto quello in cui «il gioco delle rispondenze fra dimensione mentale, esperienza letteraria e esperienza figurativa si fa davvero vorticoso», come scrive Lina Bolzoni, nella[/V_TXT] Stanza della memoria. Se il poeta lo evoca è perché quella pittura è carnalmente unita al paesaggio e perché bello e sensuale, perché ha una concezione dei colori e delle forme che gli piacerebbe riportare sulla pagina scritta e perché si adatta assai bene a rappresentare il livello intermedio tra la materia e il sogno, fatto di sensibilità, bellezza e affetti.

Per questo inserisce in Sommerreise il Concerto campestre di Giorgione, un quadro che il viaggiatore ricorda attraversando quelle terre e che, lontano e eccentrico, ben conservato in una sala del Louvre, viene collocato al centro di quel viaggio estivo. Scriveva Masini a proposito di Herman Hesse: «L’artista che vive nelle immagini è anche posseduto da esse […]. Non v’è altra ebbrezza se non nell’immagine: non v’è sogno che non si lasci vivere se non nella seduzione infinita dell’immagine. […]è ancora un’epifania dell’estremo, in quel tempo irrevocabile, in quel frammento prezioso di caducità che si consuma nelle contraddizioni della sua stessa pienezza».
Hofmannsthal si proietta su questa fantasia. Interrompe la danza tra percezione-illustrazione dell’incipit montagnoso per scrivere una esemplare pagina di ekfrasis moderna, associativa, spiazzante, mimetica di suoni e colori. Nel sottotesto, un dialogo acceso, vicino alla rottura: questa volta con D’Annunzio, altro modello da cui, dopo gli entusiasmi giovanili, si sta allontanando, insofferente alle pose estetizzanti e all’immoralismo dilagante. Il poeta italiano, affascinato dalle ebbrezze della «carne delle due donne ignude», aveva visto nel quadro il prologo di una felicità faunesca, una promessa orgiastica da compiere «quando l’ebbrezza dei suoni sarà giunta al massimo».

Hofmannsthal bandisce invece ogni erotismo. Lo attrae l’armonia del paesaggio, «dolce mistura di vicinanza e lontananza», la gioia della musica che «scioglie l’anima» in «silenziose fiumane di gioia». E registra (seguendo Pater e Bayerdorfer) l’aspirazione dei personaggi a lasciare le cose terrene per rivolgersi al cielo nella contemplazione dell’intellegibile, come dimostra quel personaggio che nel quadro non c’è e che Hofmannsthal inserisce con magica libertà: «Quello dal bel berretto fissa lo sguardo su quelle turrite lontananze azzurre. Per lui quella vista è più bella del bel corpo nudo delle donne […]. Per lui è più bella la sensazione della distanza».
[V_TXT]Poi giunge Vicenza, la città «tempestata di palazzi» che si apre sulla pianura. Questa volta non sembra interessato al paesaggio, dimentica gli abitanti, la città, e i suoi dintorni. Ciò che vuole «vedere» è solo la Rotonda di Palladio, ormai insidiata dal tempo e dall’opera distruttrice della natura. E vuole farla rivivere nella descrizione, convinto, come aveva scritto Doni nel lontano 1564, che «la scrittura ha questa forza di fabbricare in un tratto ogni gran macchina et di dipingere in un subito quanto le parla e quanto le disegna». Anche Goethe aveva visitato la Rotonda, aveva ammirato con spirito cortigiano e sensibilità massonica la villa dedicandole una descrizione competente e minuziosa. Per Hofmannsthal, invece, quella costruzione in rovina, insieme tempio e dimora, «non edificata per uomini, ma per dei», è un approdo immateriale nel puro «incantamento» dell’arte. Oltre la materialità delle montagne, oltre l’idillio delle valli e la sensualità del [/V_TXT]Concerto campestre di Giorgione c’è la visione di un palazzo dalle forme sfuggenti, in cui intelletto, sapienza e magia hanno dato vita a un simbolo potente: «un sogno immortale, una meta di meravigliosa forma, verso cui sembra tendersi l’anelito delle lontane montagne, l’anelito delle acque possenti, e che esso raggiunge, il cui cerchio raggiunge, alle cui quattro scale si stringe, placato, redento da un simbolo». E lì si compie il passaggio che Sommerreise vuole esemplificaredalla schiavitù della realtà con le sue strategie utilitaristiche alla «magnificenza» della rivelazione.

Dopo Vicenza, l’approdo ideale – appena accennato nel testo – è Venezia, la Venezia favolosa e lurida di Thomas Mann, necropoli seduttiva e inquietante cantata da Byron che si era trasformata per l’immaginario tedesco, nella quinta ideale per messe in scena magiche e femminee. Questa città impressionista per eccellenza in cui – scrive Magris – «si dileguano i confini delle cose e nella quale tutto è composita sfumatura, fioritura decadente e prossima al tramonto». Un fondale decadente per Maurice Barrés, nel 1903, e per D’annunzio che vi ambienta il romanzo Il fuoco, nel 1904, luogo di epifanie e mortali metamorfosi per Mann, che ne scriverà nel 1911.La modernità, da Wagner a Mackart, corteggia la città fremente e cadente e si specchia nella sua crisi e nella sua magia. Per Hofmannsthal è il luogo, come gli scrive l’amico Carl Burckhardt nel 1922, dove intesse fili della vita e dell’arte.

A guidarlo verso Venezia è, nell’Almanacco delle muse – «la nostalgia della bellezza delle favole, verso molti e squillanti colori, una fuga romantica via da questo mondo delle cose comprensibile». Nella fuga da questo mondo prosaico, orribile e insensato, Venezia, città dell’avventura erotica e del raffinato piacere, della dissimulazione e della possibilità, si manifestacome approdo idealizzabile per una sensibilità inquieta che non vuole più lasciarsi ingannare dalle promesse della realtà e dalle falsificazioni del progresso.