Per oltre venti anni Hofmannsthal lavora a un romanzo di formazione, Andreas und die Vereinigten, testo ambizioso e gregario scritto per dare ordine alle ossessioni di una vita – e destinato, proprio per questo, a rimanere frammento. Lo comincia nel 1907, come compagno di avventura di due saggi, Il poeta e il suo tempo e Le strade e gli incontri, e di quella straordinaria metafora del viaggio, della dispersione e del ritorno che è Lettere di un rimpatriato. Nel 1912, mentre riflette sui caposaldi della letteratura tedesca – Goethe in particolare – e si lascia contagiare dalla trasfigurazione della danza, continua a scrivere, e in pochi mesi completa una prima corposa parte del racconto che intitola: Diario del viaggio veneziano del Signor von N. All’amico Hermann Bahr lo presenta come il racconto di «gioventù e crisi di un giovane austriaco in viaggio per Venezia e la Toscana nell’anno della morte dell’Imperatrice Maria Teresa».
Il tema è ricorrente in Hofmannsthal, che già nel prologo dell’Anatol di Schnitzler aveva indicato l’età della imperatrice austriaca come ambientazione ideale per mettere in scena il teatro dei sogni e delle angosce di una generazione di epigoni, in cerca di un dialogo rasserenante tra frammentazione e universalità.

Il suo «viandante che partì per trovare se stesso» (così scrive Hofmannsthal nelle note), da Vienna giunge a Venezia passando per le montagne – patria originaria e supposta immacolata – dove viene derubato di una parte dei sui beni e della sua identità fittizia e dove intuisce la potenza trasformatrice dell’amore per Romana. Poi, nella Laguna, lì dove «la gente è quasi sempre in maschera», vive lo sdoppiamento, il disagio mentale, l’eros e la menzogna, ma incontra anche il Cavaliere di Malta, figura misteriosa di istanza superiore che, come la Società della Torre del Wilhelm Meister di Goethe, privo tuttavia delle ragionevolezze e la supponenza dell’Illuminismo, avrebbe dovuto guidare l’eroe verso nuovi approdi spirituali.

Negli anni, Hofmannsthal abbandona e ritrova più volte il protagonista e la sua metamorfosi lasciando, alla sua morte, nel 1929, ben cinquecento pagine di note e frammenti: sono appunti, progetti, spezzoni di avventure tra cinematografo ed esoterismo, con profonde riflessioni sull’essenza della vita e del cammino.

Operazione filologica non invasiva
Numerose le edizioni di questo testo di sontuosa bellezza, testamento del mondo di ieri e invocazione visionaria e inattuale ad uso del nebuloso mondo di domani. Negli anni si moltiplicano le proposte: sono critiche, deferenti, entusiaste. Alcune edizioni aderiscono alla dimensione frammentaria del romanzo che, come nella Lettera di Lord Chandos, si sottrae alla comprensione ma spalanca innumerevoli prospettive affettive e mistiche; altre si impegnano a dare un ordine filologico a questo insieme di frammenti, illuminando (o a volte confondendo, come nel caso della edizione critica curata nel 1982 da Manfred Pape) di acribia e sapienza un percorso accidentato e più volte interrotto.

Ora l’editore Del Vecchio propone una nuova edizione del romanzo affidandola a un traduttore eccellente, Andrea Landolfi. Il titolo scelto dal curatore è Andreas o I riuniti, pp. 300, € 17,00), mentre Adelphi, a ricordare l’antico maggiorasco, ha mandato in libreria, poco prima della pandemia, il suo Andrea o I ricongiunti, giunto alla nona edizione nella traduzione di Gabriella Bemporad (che esordì da Cederna nel 1948). Vedere cambiare il nome di un antico amore, soprattutto se questo amore, proprio come il romanzo di Hofmannsthal, è rimasto nei decenni aperto alle riletture, ai cambiamenti, alle proiezioni, dà sempre un brivido di ansia e disappunto allo stagionato lettore. Andrea Landolfi sa essere, tuttavia, moderato ed elegante nella resa letteraria e nella amministrazione dei materiali: tributa un rasserenante omaggio alla vecchia traduzione e alla grande traduttrice, poi propone una versione critica discreta con una ampia scelta dei frammenti (350 su 385) divisi sobriamente in tre gruppi «attorno al nucleo principale, alla parte compiuta» e una intelaiatura della parte completata che segue l’indicazione di un tardo appunto dell’autore.

L’operazione filologica non invade lo spazio del lettore, né quello dell’appassionato cultore di Hofmannsthal, bensì apre discretamente a molteplici suggestioni senza la pretesa di una interpretazione definitiva, con un moderato apparato di note e di riferimenti biografici e celebrando in ogni pagina il primato della lingua e della sua magia.

In uno degli ultimi appunti tra gli scartafacci del romanzo, a «Fine novembre 1927», Hofmannsthal tenta un salvataggio delle avventure e delle metamorfosi di Andreas collocandole, fuori dal ‘mito asburgico’ e dagli approdi felici del Bildungsroman, mentre suggerisce un improbabile raccordo tra la ricerca del suo impacciato eroe e i temi che più gli stanno a cuore nel dopoguerra: «Romanzo. Dovrebbe essere un compendio. Filosofia della politica – fino alle più sottili diramazioni nella biologia. Rapporto vicendevole delle diverse generazioni … La fonte dei punti di forza e delle particolarità nazionali».
Poco rimane del vecchio progetto ora che la guerra è perduta e quel mondo imperiale di cui, insieme ad Andreas, Hofmannsthal si sentiva l’erede, è definitivamente tramontato. Mentre viene meno la prospettiva asburgica, e anche ebraica, di una continuità tra le generazioni, sente con Ortega y Gasset di «essere solo, senza morti che vivano al suo fianco», senza tradizioni, consegnato a un inquieto e barbarico presente. Troppo grande – scrive a Buber – è la tribolazione e l’inquietudine per dedicarsi unicamente a questioni letterarie; troppo forte la sensazione di non aver fatto abbastanza per avvicinare culture e intellettuali negli anni bui della guerra.

Con tutta la ritrosia dell’Uomo difficile e con un inedito attivismo, Hofmannsthal si impegna a promuovere la «autentica missione europea». Non usa, come Zweig, la vicenda biblica della Torre di Babele per provare la solidarietà degli uomini, ma evoca i riferimenti arcaici e contadini di chi in Europa intende mettere radici e attende che la terra venga «dissodata al fine di seminare una nuova Europa», nata dalle macerie della guerra e in grado di «innalzarsi al di sopra dell’incendio del suo nido che essa stessa ha generato».

Siamo ora nel 1927
Nel discorso di Monaco, Hofmannsthal raccoglie ricette palingenetiche e prospettive aurorali, nuove religiosità sincretiche e l’eredità di un impero dai molti popoli per annunciare, con la autorevolezza del poeta, la liquidazione dell’ottocentesco materialismo, della violenza e della società di massa e promuovere l’idea di una rivoluzione conservatrice che, sulla scia di Landsberg, diventa ora appello per i «buoni europei», per i «Suchender» e tutti gli uomini di cultura e buona volontà.

Incoerente per scelta stilistica e astrattezza concettuale, debitrice a troppe fonti e a troppe suggestioni, la conferenza del 1927 ha qualcosa di attuale che, commovente e consolante, invita a sperare in tempi migliori. Forse per questo la conferenza di Monaco è stata riproposta quasi contemporaneamente in due volumetti: da Morcelliana (con testi già pubblicati nel 1983 da Marietti, L’Austria e l’Europa, per la cura di Gianpiero Cavaglià) con il titolo Le opere come spazio spirituale della nazione (pp. 110, € 11,00), curato in modo ammirevole da Elena Raponi, che individua moltissime delle disparate fonti del poeta. E da Aragno, che titola Lo scritto come spazio spirituale della nazione (a cura di Michele Bonsarto, pp. 160, € 15,00) dove, oltre al Discorso di Monaco, vengono proposti alcuni saggi di Hofmannsthal sull’Europa e il suo radioso futuro. Sia nel romanzo che nei saggi, la frattura tra le utopie del mondo di ieri e il viaggio eclettico e incerto verso una vivibile modernità.