La collana «Hoffmanniana» della casa editrice L’orma arriva al suo terzo tomo con il volume delle Fiabe (a cura di Matteo Galli, traduzioni di Giulia Ferro Milone e Matteo Galli, pp. 418,euro 28,00), i Notturni (a cura di Matteo Galli) e Gli elisir del Diavolo (a cura di Luca Crescenzi). Il godimento è assicurato, e promette ore di lettura «fantastica» e «meravigliosa» in compagnia del Piccolo Zaches detto Cinabro, della Principessa Brambilla e di Mastro Pulce. L’idea è felice: riproporre l’intera opera di uno degli artisti europei più avventurosi per l’anima e per lo spirito, sorprendenti per chi ragioni di psiche e natura, vera miniera onirica per lettori di tutte le età, fonte di ispirazione per scrittori e scienziati, musicisti e pittori, psicanalisti e drammaturghi. Le traduzioni sono nuove e vivide, temperate da un lessico che riesce a trarre il meglio dalla tradizione fiabesca ma rinuncia a ogni ammiccamento a toni ottocenteschi o manierati, consegnando questa scrittura umoristica o umorale, perturbante o esilarante, al linguaggio del nostro presente. Le edizioni sono pensate per una lettura agevole, ma per chi voglia approfondire il mondo di Hoffmann, tutte le chiavi segrete dei suoi racconti, i curatori incorniciano i testi con interessanti e anche divertenti apparati.
Come ogni volume, questo delle Fiabe è introdotto da una prefazione che illumina le questioni storico-critiche cresciute intorno a Hoffmann. Offre piste per ricerche ulteriori, che si compendiano con un raro apparato iconografico, con le note mai pedanti, la cronologia, e la E.T.A.pedia, un lemmario in ventiquattro voci di volta in volta offerte, scrive Galli, alla «flânerie intellettuale» del lettore. Così potremo perderci seguendo la serendipità partendo da «A» come Animali (pulci, scimmie, gatti, cani e strane creature), «B» come Baudelaire (che vide nella Principessa Brambilla un «catechismo di alta estetica» e in Mastro Pulce il «comique absolu»), ma anche come Berlino, ultima tappa della vita itinerante di Hoffmann.
A Berlino Hoffmann arriva infatti tardi e non proprio felicemente, dopo aver peregrinato (giudice, poi drammaturgo e compositore, infine ancora uomo di legge), tra Königsberg, città natale, e Glogau, Berlino, Poznan, Plock, Varsavia, Bamberga, Dresda, Lipsia. E ancora: «C» come Callot, l’incisore francese del XVII secolo autore dei Capricci ispiratori delle maschere buffe, ora aggraziate ora grottesche, della Principessa Brambilla. Ma anche «C» come Carnevale Romano, fonte letteraria e documentaria, alimentata dai resoconti di Volkmann e Goethe, che riprendono un’aerea vita nel racconto hoffmanniano. E così via fino alla «U» di Urdar, la fonte di cui si favoleggia nelle saghe nordiche, luogo proiettato nel passato, nel presente e nel futuro, paradigma della stessa struttura di queste fiabe. Tutte costruite secondo uno schema triadico che fa ricorso al mito di un’età dell’oro pacificata di armonica indistinzione tra regni (animale, vegetale, minerale, cosmico, umano, divino), cui dopo una dolorosa frattura segue un presente in cui tutti, dagli umani agli spiriti elementari, sono inadeguati alla loro condizione, e vivono nell’errore, nella metamorfosi imperfetta, nell’opacità della percezione. Infine la soluzione utopica o uno scioglimento, raggiunto attraverso le più strane peripezie che portano a un percorso di formazione, a una conoscenza di sé che non è solo individuazione ma recupero del rapporto tra uomini e degli uomini con la natura.
Basta già dunque un giretto tra i lemmi della E.T.A.pedia per capire la natura di queste particolarissime fiabe, scritte rispettivamente nel 1819, 1820 e 1822, dunque a ridosso della seconda edizione delle Fiabe dei Grimm (1819), ma di tutt’altro genere. Non si tratta per Hoffmann di raccogliere e riconfigurare in un programma insieme folklorico, linguistico e pedagogico la «voce» del «popolo» tedesco in una raccolta di fiabe popolari, bensì di dare corpo, con ironia e umorismo, e sempre in una costante e benevola interlocuzione col lettore, più e più volte chiamato in causa in commenti e ragionamenti metanarrativi, alla «più meravigliosa delle fiabe»: «lo spirito umano, la fiaba più meravigliosa che sia mai esistita. (…) Come sarebbe spenta, squallida e cieca la nostra vita se lo spirito del mondo non ci avesse dotato, noi figli diseredati della natura, di quella inesauribile miniera di diamanti (…). Beati coloro che sono consapevoli di questo possesso!». Così il narratore ne La principessa Brambilla. Se la più meravigliosa delle fiabe è inscritta nel petto degli uomini, e corrisponde – secondo la testimonianza di Sancho Panza convocato da Hoffmann come massima auctoritas in materia – al «sogno che tutti sogniamo nel corso dell’intera nostra vita», allora la funzione della fiaba sarà renderci consapevoli di questa ricchezza, ovvero salvezza dall’alienazione, dalla nevrosi, dalla paralisi.
Le fiabe raccolgono tutti i motivi e gli artifici della tradizione del racconto di fate, li ricombinano con saperi esoterici, ricerche scientifiche come quelle sul magnetismo e sul mesmerismo, rituali astrologici e massonici, alchemici e spiritistici, e tutto questo portano in relazione con un piano critico e politico: quello della critica dell’esistente. Si riconoscono in alcuni personaggi i tratti dell’ottusa burocrazia prussiana, nelle ambientazioni i salotti biedermeier, i tic che appartenevano alla società in cui Hoffmann viveva, dai giuristi ai musicisti, dai teatranti agli artigiani.
Non è dunque una trovata umoristica la fiaba del mostriciattolo Piccolo Zaches detto Cinabro, bizzarra creatura deforme, un po’ bambino un po’ madragora, «che a tre anni e mezzo non si regge in piedi sulle gambette di ragno, non cammina, e invece di parlare soffia e miagola come un gatto». Lo sottrae alla disperatissima madre una fata, che con arti magiche riesce a celare il suo vero aspetto e fargli assorbire le caratteristiche positive di chi gli sta intorno, favorendo una irresistibile quanto inspiegabile carriera politica e amorosa a danno di tutti gli altri. Alla fine la virtù trionfa, ma il percorso di tutti è quello di un riconoscimento di sé attraverso la perdita momentanea di identità e il confronto con un «Non-Io» di fichtiana memoria. La presenza di fate e maghi banditi dal regno in cui, tanto per dirne una, viene introdotto l’Illuminismo per decreto, con tutti i suoi corollari di ragione strumentale. Hoffmann mette in crisi il sogno tecnologico e razionalistico che l’Europa cominciava a sognare nel primo Ottocento, smascherandone le ipocrisie e il potenziale di manipolazione ideologica che solo un secolo dopo si sarebbe manifestato in tutta la sua violenza con una schiera di violenti, e piccoli «Zaches» (ma senza lieto fine). D’altro canto, i lettori novecenteschi di Kafka riconosceranno in Zaches un sinistro progenitore di un essere ben meno pericoloso, più mite e rassegnato, eppure anch’esso unheimlich: Odradek.
Sullo sdoppiamento e sulla presa di contatto con la realtà attraverso la via tortuosa del fantastico si fonda anche la Principessa Brambilla. Ambientata nel carnevale romano, la narrazione ci conduce in una storia di sdoppiamento di cui protagoniste sono due coppie, una sartina e un attore dilettante e addirittura una principessa e un principe di origini favolose. In una costruzione della vicenda che sembra anticipare il Doppio sogno di Schnitzler i due giovani romani, accompagnati da una serie di aiutanti e antagonisti (maghi, venditori e ciarlatani, vecchie e vecchi artigiani, personaggi misteriosi) attraverso i loro Doppelgänger (proiezioni di parti di sé favorite dalla fervida fantasia e dalla magia del carnevale che tutto sovverte e scompagina) riescono a trovare una relazione autentica tra loro e con l’esistenza. La fiaba carnevalesca porta con sé il messaggio liberatorio per cui nella dimensione della libertà (innanzitutto della fantasia, del capriccio ispirato a Callot e alle maschere della commedia dell’arte), la ricchezza (che per Hoffmann è il contrario dell’alienazione, e coincide con l’autocomprensione) è accessibile a tutte le classi sociali, in particolare ai cuori semplici dotati di cuore, amore e immaginazione.
E ancora la risoluzione di una frattura, la ricomposizione di una condizione alienata di inconsapevolezza è il portato critico della «più stravagante e la più folle tra tutte le fiabe»: Mastro Pulce. Il maestro di saggezza è letteralmente una pulce sapiente piazzata sul collo del protagonista Peregrinus, un personaggio che incontriamo nelle prime pagine del racconto come soggetto malinconico e chiuso, ai limiti dell’autismo, che attraverso una serie di incredibili peripezie arriverà a ricostruire un sistema esoterico di vite precedenti, in un continuo addensarsi di piani temporali tra passato presente e futuro, reincarnazioni e continuità tra regni della natura. Il percorso di socializzazione e conoscenza di sé e del mondo passa attraverso trucchi da mago e dispositivi tecnologici come il prisma che se messo nell’occhio consente al protagonista di leggere i veri pensieri degli interlocutori (ecco una nota che i lettori di Pirandello riconosceranno subito!). Ma la liberazione e lo scioglimento giungeranno solo nel momento in cui Peregrinus, di fronte alla donna amata, consapevolmente sceglierà di fare a meno di questo mezzo, per abbracciare la fiducia che solo l’amore può fondare tra due persone.
La fantasia che mette insieme i regni del naturale e del soprannaturale assume per Hoffmann una funzione terapeutica e critica che vale la pena di sperimentare ancora. Divertimento e umorismo con una punta di vermut sono assicurati. In omaggio speciali occhiali per riconoscere i piccoli Zacchei di oggi, le ragazze intelligenti e intrepide dal cuore limpido e i giovanotti malinconici ma capaci di dignità e amore. Per grandi e piccini, anche non accompagnati.