Pur essendo di gran lunga minoritaria all’interno dell’Islam e non paragonabile per dimensioni alla vastità del mondo sunnita, la corrente degli sciiti è particolarmente ricca di forme, varianti, scismi interni e vicende storiche che la rendono un ambito di studio estremamente interessante. Nonostante la vasta e sinistra nomea che lo circonda (o forse proprio perciò) il gruppo studiato da Marshall G. S. Hodgson nel suo L’ordine degli Assassini (che Adelphi traduce per la prima volta a cura di Svevo D’Onofrio, pp. 522, € 32,00) rimane uno dei più oscuri ed elusivi della galassia sciita, sul quale il volume si propone il non facile compito di far luce.
Estremamente ricco e dettagliato, lo studio di Hodgson risale al 1955, e si è affermato come uno dei testi «classici» sugli Hashishiyin, o «Assassini» come sono conosciuti nel mondo occidentale. Il loro nome appropriato sarebbe, in realtà, quello di Nizariti, ma il fascino tenebroso della parola Assassini permane ostinatamente duraturo.

All’origine dello scisma
D’altronde, fino a non molto tempo fa, quello che anche i cultori della materia sapevano era in gran parte costituito da stereotipi, frutto di racconti tanto pittoreschi quanto fantasiosi, in cui il «veglio della montagna» dalla rocca di Alamut inviava contro i nemici gruppi di sicari inebriati dal fumo dell’hashish. In realtà, denominazioni che fanno riferimento alla parola araba hashish «erba», e quasi certamente non avevano nulla a che vedere col consumo di cannabis, erano in uso solo nelle regioni siriane, dove i Crociati le appresero divulgando poi il termine Assassini.

Come si sa, il ramo sciita dell’Islam muove dalla pretesa di Ali, cugino e genero di Maometto, di subentrargli alla guida della comunità dopo la sua morte, e col tempo ha sviluppato il culto degli imam suoi successori, dividendosi poi ulteriormente man mano che rivalità dinastiche si traducevano in scissioni tra coloro che riconoscevano valide le pretese di questo o quel candidato all’imamato.
Decisivo, in queste dispute, non è solo il principio di legittimità di sangue, ma anche quello della «designazione» (nass) con cui ogni imam indica il proprio successore. Non sempre, però, questa designazione ha luogo in modo pubblico e incontestabile. Già il primo nass con cui lo stesso Maometto avrebbe trasmesso ad Ali il ruolo di successore è accreditato solo dagli sciiti mentre viene ignorato dalle fonti sunnite, e nella storia dello sciismo saranno numerose le pretese basate su nass privi di riscontri. A complicare le cose c’è la propensione sciita a valorizzare ciò che è batin (occulto), in contrapposizione a quanto risulta dalle apparenze esteriori (zahir). In questo modo, valutare la fondatezza di ogni rivendicazione era più un atto di fede che una scelta basata su dati oggettivi.

Per quanto divise sul nome dell’imam di riferimento, tutte le ramificazioni dello sciismo sono concordi nel sostenere che esso è «nascosto» e si paleserà solo alla fine dei tempi. Se si pensa che la norma seguita da gran parte degli sciiti fuori dalla loro comunità è la taqiyya (dissimulazione, consistente nel fingersi adepti del culto della maggioranza), e che la quasi totalità dei documenti sui Nizariti proviene da fonti esterne, che ovviamente ne ingigantiscono gli aspetti eretici con descrizioni spesso inverosimili, avremo un’idea della nebulosità dell’argomento e di quanto sia ardua la ricerca cui Hodgson si è dedicato.

L’ennesima successione
Il volume contiene non solo una gran quantità di informazioni fattuali sulla nascita e sulle diramazioni iranica e siriana della setta tra l’11° e il 13° secolo (con 8 signori di Alamut tra il 1090 e il 1256), ma anche approfondite analisi dell’ideologia che la connotava e della sua evoluzione, che portò a sviluppi assolutamente originali nonché imprevedibili. L’autore, che è il più importante storico americano dell’Islam, non esita a inoltrarsi nei meandri di ragionamenti che, tra sillogismi e enunciazioni dogmatiche, mettono a dura prova l’attenzione del lettore. La traduzione si adegua allo stile del testo inglese, riuscendo a non tradirne il senso anche nei punti più complessi, tuttavia è quanto meno curiosa la scelta di tradurre con «dispensa» il termine inglese dispensation, che compare molte volte nel testo a significare il «sistema religioso vigente».

L’occasione storica che diede origine allo scisma fu l’ennesima successione contestata, alla morte di un califfo fatimide d’Egitto intorno al 1094 (i Fatimidi iranici puntarono su Nizar mentre il potere venne assunto dal fratello al-Musta‘li): e tuttavia il fatto è in definitiva secondario. Una volta accettato il principio dell’indispensabilità di un imam, conoscerne nome e identità era perfino superfluo: i capi della setta ne erano la hujja (prova) e il loro ta‘lim (insegnamento) era insindacabile. Oltretutto, la comunità si era già formata, prima di queste dispute, intorno a colui che può esserne considerato il vero «fondatore», Hasan i-Sabbâh, un da‘i (predicatore) iranico, che da tempo svolgeva opera di proselitismo e conquista nelle regioni della Persia a sud del Caspio.

Nel 1090 Hasan i-Sabbâh riuscì a impossessarsi di una rocca posta su un’aspra rupe chiamata Alamut, che da allora divenne il centro operativo della setta. Nella lingua locale, il nome stava per «nido d’aquila», ma in alfabeto arabo si scrive alla stessa maniera di al-mawt «la morte», e questa sinistra consonanza ben si prestava ad arricchire di terrore tutti i potenziali bersagli dei Nizariti.

Mondi lontani, simili esiti
Pur costituendo un dato costante per tutta la loro storia, la conquista di roccheforti e gli omicidi politici non furono certo esclusiva dei Nizariti. L’aspetto più originale fu, sul piano teologico, la dottrina della Qiyama, la «resurrezione», sviluppata a partire dal 1164 da Hasan II e dal suo successore Muhammad II, esposta per esteso in un documento tradotto e commentato in appendice al libro, secondo la quale con Hasan II si è chiusa l’era dell’attesa dell’imam, il mondo mortale è finito e sopravvivono solo i rinati a una vita immortale, che hanno risposto al suo appello. Con ciò, gli uomini venivano affrancati dal giogo della legge (la sharia), liberi di mangiare durante il mese del digiuno e di non pregare rivolti verso la Mecca. Hasan stesso venne adorato come un imam e addirittura Qa’im (suscitatore) della Qiyama, dai tratti quasi sovrannaturali.

Questi sviluppi apparentemente bizzarri, sono tuttavia pienamente giustificati da un complesso sistema teologico che nel volume viene accuratamente descritto e chiosato. Il riconoscimento del divino in un essere incarnato (insieme ad altre credenze come quella nella trasmigrazione delle anime) è un tratto comune a un’altra scheggia originata dal mondo fatimide, quella dei Drusi, che con i Nizariti di Alamut condividono l’amore per la segretezza e l’inafferrabilità. Ma anche al lettore europeo l’idea di un’ipostasi divina che apre una nuova era e permette all’umanità di superare i formalismi della Legge preesistente suona familiare.
Indagare i misteriosi canali carsici che possono aver portato ad esiti analoghi in mondi tanto diversi è una sfida cui sarà necessario aggiungere ancora parecchi sforzi. Molto resta da scoprire sul mondo sciita, e in particolare su questa comunità, che da feroce e temuta si è col tempo trasformata nel pacifico movimento ismailita odierno il cui capo, l’Agha Khan, combatte il sottosviluppo e compie opere di filantropia.