Prima di essere sorpresa dalla pandemia lavorava a un nuovo romanzo, «ma mi ero già fermata perché mi sono rotta una spalla e non riesco a concentrarmi, quasi neppure a leggere, per il dolore». Però ora, costretta come tutti a un isolamento forzato, ammette, «non mi dispiace questa sensazione di vuoto siderale. Non mi sento intrappolata, è piuttosto il mondo esterno che ha sposato i miei ritmi».
Hoda Barakat risponde dalla sua casa di Parigi alle domande del manifesto, mostrando le proprie incertezze e preoccupazioni di fronte all’evoluzione del contagio, ma senza negare che la scelta del «confinamento» non è poi così inusuale per chi scrive. Prima donna a vincere il prestigioso Arab Booker – lo scorso anno con Corriere di notte (La nave di Teseo) -, il più importante riconoscimento per le lettere arabe, Barakat vive da oltre trent’anni nella capitale francese dopo aver lasciato il Libano all’indomani della guerra civile. Nei suoi romanzi proprio il conflitto fratricida del Paese d’origine torna spesso come metafora del difficile tentativo degli individui di sottrarsi al destino imposto dalle identità comunitarie, religiose, di genere. Una costante indagine dentro la complessità, legata ad una rivendicata dimensione diasporica più che a quella imposta dell’esilio, che Barakat riproporrà venerdì nell’ambito dell’edizione online del Salone del Libro di Torino che si inaugura domani.

Quest’edizione speciale del Salone evoca le «altre forme di vita», un titolo pensato prima della pandemia guardando soprattutto ai pericoli connessi al cambiamento climatico e alle ferite inferte alla natura. Ora sembra descrivere la nostra stessa quotidianità divenuta qualcosa d’«altro» in poche settimane.
In realtà con la pandemia non ci troviamo poi così lontani dal titolo dell’appuntamento di Torino. Abbiamo maltrattato la terra talmente tanto da non riuscire nemmeno più a poter prevedere o tenere conto dei danni che stavamo provocando. E dal momento che, almeno fino ad ora, abbiamo capito veramente poco di questo virus, potrebbe essere che si tratti proprio di uno degli effetti provocati da tutto ciò, di uno dei «danni» che non avevamo previsto. Forse questa pandemia non è davvero «qualcosa d’altro», nonostante la nostra sensazione generale di «mai vissuto prima». Non lo si è mai vissuto in questa parte del mondo, in questo luogo e in questo tempo. La nostra pretesa «scientifica» dell’onnipotenza del progresso non include le mutazioni dei virus? A volte tutto questo sembra assomigliare a certe commedie incredibili sulle gesta di qualche scienziato pazzo.

La scrittrice Hoda Barakat

Quale ruolo può esercitare la letteratura in un mondo chiuso in sé stesso? In un’intervista a «Le Monde» lei ha spiegato di aver cominciato a scrivere quando in Libano è scoppiata la guerra civile che ha reso impossibile comunicare con gli altri: «Ho iniziato a scrivere quando ho smesso di parlare con le persone».
Non so se la letteratura, e l’arte in generale, possano esercitare un qualche «ruolo» collettivo. È un’attività di solitari che si rivolge ad altri solitari nel più grande silenzio. In questo momento ho la sensazione che sia il mondo reale, confinato e svuotato che abbraccia il ritmo e il silenzio della scrittura. E credo sia straordinario, e ci deve far riflettere, il fatto che in un mondo caratterizzato dell’iper-comunicabilità, proprio la comunicazione sia diventata la nostra peggior pena. Che siamo costretti all’assenza di corpi e voci, reali, e che la solitudine sia vissuta come una prigione, forse perché con il confinamento obbligato ci stiamo rendendo conto che la «libertà di comunicare» era solo un’illusione creata da noi stessi. Ecco perché ora la nostra sorpresa è immensa.

Nel suo ultimo romanzo, «Corriere di notte», si respira la paura di migranti e rifugiati il cui destino è appeso al caso. Di fronte alle molte vittime del virus che sono morte sole, come gli anziani nelle case di ripose, viene da pensare a una solitudine simile, ad una consapevolezza del proprio dolore che però, proprio come quella dei migranti morti in mare, non smette di interrogare tutti noi.
È vero, i migranti morivano, e continuano a morire, come accade ora alle vittime del virus, senza parenti né riti, in totale isolamento, con in più la paura della contaminazione. E questo riguarda specialmente gli anziani, a cui a volte sono state negate perfino le cure. Muoiono come dei «migranti interni», come scarti della logica della produttività ad ogni costo. La tragedia dei decessi che si sono registrati nelle case di riposo appare come il culmine di questo scandalo, anche se queste hanno il triste sapore di morti annunciate. Coloro che stavano annegando e che sono «tornati» alla vita, ripescati dal mare appena prima del punto di non ritorno, raccontano che in quel momento fatidico sono stati avvolti nell’oscurità totale malgrado si fosse in pieno giorno. Non vedevano né sentivano niente. Intorno, il buio totale e nient’altro: alcuna consapevolezza, neppure una sensazione di paura. Deve assomigliare a qualcosa del genere il letto di un vecchio in una casa di riposo.

[do action=”citazione”]«In questo momento ho la sensazione che sia il mondo reale, confinato e svuotato che abbraccia il ritmo e il silenzio della scrittura»[/do]

Prima di dedicarsi completamente alla scrittura ha diretto a lungo la redazione giornalistica di Radio Orient di Parigi, una delle più importanti emittenti arabe d’Europa. Un’esperienza che le ha insegnato qualcosa rispetto ad una realtà come quella odierna che sembra nutrirsi di fake news e della manipolazione di cifre, dati, ricerche?
Ad essere sincera, non ho mai creduto fino in fondo alla «verità» del reale. In me conviveva già un doppio approccio e la giornalista se la faceva poco o nulla con la scrittrice. Come se tra loro fosse stata eretta una parete a tenuta stagna. Del resto non c’è bisogno di essere giornalista (o storica) per essere curiosa del mondo, e questo tanto più se si subiscono o se ne sono subiti gli effetti nel più profondo del proprio essere. Probabilmente è questa una delle lezioni della guerra civile che ho vissuto in Libano. È però vero che la coscienza del mondo non dispone solo dei fatti dell’attualità come proprie antenne o strumenti di approccio. Mi spingo anche oltre: i «fatti» a volte impediscono di allontanarsi, di mettere la giusta distanza, per vedere meglio il mondo. Come fanno i romanzieri, o almeno quelli che amo di più, che mi informano meglio sulla realtà rispetto a quanti non dichiarino esplicitamente di volerlo fare a partire dalla Storia e via dicendo. Per questo ho sempre creduto che i miei personaggi fossero più veri di me, che mi aiutassero ad «andare oltre» e più in profondità. Che cosa avrei da raccontare della mia vita «reale» al di là di qualche noiosa banalità: non ho nulla dell’avventuriera stravagante o della combattente.

La diffusione del virus sta rendendo ancor più evidente il fossato che separa ricchi e poveri, nord e sud: negli Stati Uniti tra i più colpiti ci sono i membri delle minoranze, in Francia l’allarme è per la condizione di chi vive nelle banlieue, nel resto del mondo si teme per la sorte di profughi e rifugiati. Che società uscirà da questa crisi?
Non ho alcuna idea di come potrà essere il mondo del «dopo». Invidio coloro che hanno così tante idee e teorie e che già analizzano, filosofeggiano e predicano… Quelli che di mestiere ci spiegano ciò che accadrà, avendo l’esclusiva sugli strumenti del sapere prima ancora che le cose accadano! Anche gli scienziati mostrano ancora grandi lacune nella conoscenza di questo virus, ma «loro» sanno già tutto, come i profeti dai vecchi tempi, dato che la profezia ha la scienza infusa, totale, incontestabile, definitiva. In ogni caso, non mi fido degli esseri umani quanto alla loro capacità di imparare da ciò che gli accade. Nel corso della loro storia hanno appreso raramente le lezioni giuste. Ora che i poveri e i deboli sono sempre più deboli e più poveri, la forza del capitale si scatenerà sotto varie forme per difendersi dalla crisi senza alcuna vergogna o scrupolo, mostrando la propria natura di nuovo padrone del mondo. Ma forse io vedo solo nero.