I pochi indizi relativi alla loro identità ci dicono che vengono probabilmente dal Maghreb, dalla Siria, forse dall’Iraq o dal Libano. Sono le donne e gli uomini protagonisti di Corriere di notte (La nave di Teseo, pp. 148, euro 17) che affidano a missive senza destinatario, nascoste in stanze d’albergo o aeroporti le storie delle loro vite, i rimpianti e i rimorsi per ferite subite o inferte. Il nuovo libro di Hoda Barakat, non a caso premiato nei mesi scorsi con il prestigioso Arab Booker, è un diario appassionato e dolente dell’esilio, a un tempo individuale e collettivo, cui sono costrette milioni di persone, poi definite in Europa come migranti o rifugiati.

Delle lettere scritte con la consapevolezza che non finiranno mai nelle mani dei destinatari. Il suo romanzo appare come una sorta di celebrazione degli incontri mancati, dove solitudine e marginalità la fanno da padrone. Uno spaccato di un’umanità che si cerca senza mai incontrarsi davvero?
Senza dubbio. Ho la sensazione crescente che la nostra epoca si stia compiendo in circostanze molto speciali, mai sperimentate prima. Gli esseri umani non sono mai stati «connessi» in maniera tanto intensa dalla comparsa dell’homo sapiens. Ma la «comunicabilità» non è più un beneficio tecnico, è diventata piuttosto un’attività imposta, obbligatoria, inevitabile, dalla quale non possiamo più sfuggire. Perfino l’attualità, le «news» si sono trasformate in una sorte di aggressione. Non hai più la possibilità di non sapere, di chiudere gli occhi punto e basta. Eppure, il «chiudere gli occhi», non ascoltare o vedere ciò che ci circonda è diventato proprio oggi quasi indipendente da tutti i riferimenti morali o umanamente affettivi, dettati dall’empatia. Le vittime, gli emarginati, i deboli, i poveri… sono ben visibili ogni giorno, ma è come se la loro visione non fosse più connessa alla coscienza. Si tratta di un’incomunicabilità molto confortevole, o colpevolizzante, ma in tutti i casi sterile e infruttuosa.

La scrittrice di origine libanese Hoda Barakat

I protagonisti del libro sono «stranieri» – immigrati, rifugiati, persone in fuga dalla guerra e dal proprio passato – che raccontano in queste lettere ciò che gli è accaduto. Cercano per questa via di uscire dall’invisibilità cui li condanna la realtà sociale in cui vivono?
Sì, sono stranieri, migranti, che fuggono dal loro paese d’origine a qualsiasi prezzo, anche a costo di morire nei mari o sulle strade. Milioni di persone, settanta milioni di esseri umani che camminano, vagando senza un obiettivo territoriale o geografico fisso. Lo sappiamo naturalmente, ma allo stesso tempo non vogliamo saperlo. Abbiamo paura. Ci abbandoniamo ad ogni timore e sprofondiamo nel delirio della purezza identitaria. In questo senso, il romanzo non voleva offrire facili soluzioni, non ne ho alcuna. Volevo solo avvicinarmi a questa realtà, ascoltare voci che normalmente non parlano. Però, nel libro, anche chi scrive queste lettere sa bene che non raggiungeranno mai alcun destinatario. Sa che scrivere a qualcuno è perfettamente inutile e tuttavia vuole farlo lo stesso, più per se stesso che per ottenere qualcosa. Così quelle che possono apparire come verità e confessioni si mescolano alle menzogne e alle invenzioni «favolose». Nessuno leggerà mai quanto scrivono e perciò non c’è alcun rigore cui attenersi. Di fronte alla disperazione più profonda, al muro della solitudine, questo gioco di scrittura senza un destinatario è sollevato da ogni significato o «funzione», da qualunque attesa di guarigione.

Questi personaggi erranti – spesso soli e alla deriva in contesti inospitali o minacciosi -, portano in sé la voce dei milioni di invisibili che nei paesi occidentali sono additati come «una minaccia» anche se sembrano essere le prime vittime della condizione che vivono.
È proprio così, e intorno a questa situazione monta la nostra immensa angoscia. Soprattutto perché questa «minaccia» l’abbiamo costruita noi stessi. Abbiamo permesso per molto tempo ai nostri sistemi politici, e persino al nostro modo di pensare, di dialogare con le dittature, con paesi dove il potere si basava sulla corruzione e e il saccheggio delle popolazioni. Lo abbiamo fatto forti della presunzione di essere più intelligenti, scaltri, in grado di trarre profitti e benefici dal tenerci buoni simili alleati. I metodi adottati da questi leader non ci infastidivano, al contrario, li abbiamo trattati come amici e fidati collaboratori, siamo stati loro complici al fine di derubare, con la loro connivenza, ancor di più i loro stessi popoli. Per farlo abbiamo fatto ricorso anche alla teoria della non ingerenza che «rispetta la libertà» dei popoli e la loro indipendenza. Tutto questo perché pensavamo che fossero lontani dai «nostri» confini. Bene, ora sono qui!

Anche se con discrezione, dalle lettere dei protagonisti si comprende come vengano tutti dal mondo arabo. Le loro vite offese sembrano rimandare a quella sete di libertà rimasta inevasa malgrado le cosiddette primavere arabe: nella disperazione di queste missive si cela un seme di rivolta?
Sì, certo, solo che questa rivolta è stata soffocata. La sete di libertà è innata, vitale, ma il mondo arabo e persino l’Africa, proprio come gli individui che trasformo in personaggi da romanzo, sono letteralmente intrappolati e assediati da ogni parte. Nella loro memoria paralizzata sono germogliati virus debilitanti, vergognosi e disgustosi: la mancanza di fiducia, la violenza dell’ignoranza, i tormenti dell’ingiustizia, il fallimento della Storia e una lettura errata del mondo. Questa disperazione è la più pericolosa delle fragilità: in questo senso, gli islamisti non nascono certo dal vuoto …

Si può dire che questo sia uno dei suoi primi libri pensati emotivamente «lontano» dal Libano e dal conflitto che lo ha sanguinosamente diviso, vicenda che ha accompagnato il suo intero percorso di scrittrice. È l’inizio di una transizione?
Il Libano che ho descritto nei miei romanzi non era un luogo geografico specifico. Rappresentava piuttosto una sorta di allegoria per raccontare la storia della violenza estrema, della distruzione e dell’autodistruzione attraverso uno sguardo che esaminava e metteva in discussione la stessa condizione umana. Per questo, anche nel caso di Corriere di notte, che è in effetti il mio primo libro che non rimanda direttamente alla realtà libanese. non sono sicura di aver dovuto compiere una vera «transizione». Piuttosto, credo sia lo sguardo della straniera che sono ad avermi avvicinato a questi erranti che, proprio come me, hanno lasciato le loro case senza voler arrivare in un luogo specifico, dove hanno un progetto o un piano di vita… Ho lasciato il Libano per fuggire, non per «atterrare» da qualche parte. E ancora oggi, dopo tanto tempo (oltre trent’anni, nda) che ci vivo non ho l’impressione di aver «attraccato» a Parigi, o altrove.

Lei scrive in arabo pur vivendo da molti anni in Francia. Inoltre, ha spiegato più volte che il rapporto con questa lingua lo ha conquistato palmo a palmo dopo aver frequentato un liceo francofono di Beirut. Come sono andate le cose?
Credo che sia proprio perché vivo lontano dal mio paese, e lontano dal mondo arabo, che sono così attaccata alla lingua araba. È, per così dire, tutto ciò che mi rimane di «laggiù». Del resto, la lingua araba è magnifica, specialmente per me che continuo a studiarla ancora oggi. L’arabo risponde alla mia passione e al mio bisogno di libertà e modernità. Ovviamente non nego che sia stata oppressa da molti pregiudizi, come l’essere, o l’essere stata per molto tempo la lingua del sacro. Una vera follia. Un libro o un testo possono essere sacri per i credenti, ma non certo una lingua! Non ho bisogno di seguire la logica del mercato che dice che siamo più visibili e meglio distribuiti (a pagamento) quando scriviamo in una «lingua del mondo», vale a dire in francese o in inglese… L’arabo è parte del mio essere. È qualcosa di definitivo. Non è una questione di preferenza o di calcolo, in modo particolare per i miei testi letterari. Si tratta di un’autentica necessità.