Jonas Carpignano e Swamy Rotolo arrivano insieme, il «gruppo» con la stampa è sulla spiaggia della Quinzaine, davanti al mare. Con  loro Paolo Carpignano, produttore di A Chiara (e papà di Jonas). Swamy, quasi 17 anni, è sicura di sé, lei e  Jonas sono più di regista e attrice – futuro che alla fine del film ha deciso sarà il suo. E a chi le chiede se ha un «modello» risponde: «Alba Rohrwacher. Mi piacerebbe lavorare  insieme a Alice Rohrwacher». Jonas, dice ancora Swamy è un amico, uno di famiglia – ride. E lui racconta – chiedendole il permesso – come prima un po’ sbuffavano lei e quel gruppo di adolescenti di Gioia Tauro con cui ha lavorato quando lui insisteva per filmare mentre adesso lo chiamano per dire: «Che facciamo stasera?».
A Chiara è stato girato senza seguire sceneggiatura, Carpignano ha lavorato  in ordine cronologico e Swamy doveva «improvvisare» certe scene senza sapere cosa fossero. Poi è arrivata la pandemia, il set si è complicato, loro  hanno cercato di andare avanti e questa strana condizione – dicono pur quasi con timore – li ha persino aiutati rendendo i legami ancora più forti.
Carpignano è un «autore di Cannes», con A Chiara, presentato (e molto applaudito) alla Quinzane des Realisateurs  torna sulla Croisette per la terza volta, il suo primo film Mediterranea (2015) ha esordito alla Semaine de la Critique con un grande successo internazionale, e il successivo A Ciambra (2017) – anche questo molto amato – era alla Quinzaine. Tutti sono ambientati a Gioia Tauro, dove il regista vive da dieci anni, «un posto che amo» spiega, e questo amore è anche all’origine dei film: «Potrei fare un sequel con unendo i personaggi insieme come gli Avengers».

«PER ME è importante restituire quella realtà come la conosco, nel modo in cui la vivo ogni giorno, che è molto diverso da come viene rappresentata la Calabria nelle fiction o nei film. Non ho mai visto una sparatoria anche se questo non significa che non vi siano problemi. E proprio perché voglio parlare di quanto è vicino alla nostra realtà, i personaggi del film sono ’lavoratori della n’drangheta’, manovali non mega-boss come Pablo Escobar o gli altri miliardari, i potenti, gli avvocati, i notabili che non incontrerò mai».
È un’immagine «arcaica» che cerca di decostruire Carpignano, lasciando spazio ai giovani del territorio e insieme «globali» come appunto Swamy che ascolta Marrakasch e pure lei di conflitti a fuoco non ne ha mai visti «in diciassette anni!».

AL SUO PERSONAGGIO – perché tutti e e due tengono a dirlo anche se quella è la sua vera famiglia la storia non è la sua – lei si sente vicina ma  non ne condivide tutte le scelte: «Non so se avrei accettato di andare via». Il punto più conflittuale della narrazione riguarda infatti la legge che permette di far decadere la responsabilità genitoriale alle famiglie della n’drangheta – la cui applicazione è sempre più frequente – con lo scopo di «rompere in cerchio», di «salvare i minori offrendogli un diverso e migliore futuro» ma che è una forma di violenza fortissima. « La questione è  molto complessa, perché è vero – rimanendo ral film – che  il padre di Chiara è uno spacciatore ma anche un buon padre – dice Carpignano – Le persone non possono essere giudicate solo per quello che fanno, si dovrebbero guardare le relazioni emotive, come vivono i bambini in famiglia, essere allontati è un dolore terribile. Quando Salvini dice che bisogna espellere i migranti perché spacciano o sono irregolari, non sono d’accordo: non possiamo generalizzare, se si finisce nella criminalità ci sono molte ragioni, la sopravvivenza che magari spinge a spacciare o l’impossibilità di avere documenti. La realtà è molto più sfumata».