Voci di cineaste e di personaggi femminili stanno contribuendo, in questi anni, alla crescita di una piccola cinematografia, quella del Kosovo. Autrici alle loro opere prime. Antonieta Kastrati nel 2019 ha esordito con Zana. Ambientato in un paese di campagna dopo la guerra (durante la quale la regista ha perso madre e sorella), ha per protagonista Lume, una donna albanese che non riesce ad avere figli a seguito di un trauma subito e la cui famiglia la costringe a frequentare stregoni e guaritori. Il dolore di Lume cresce scena dopo scena fino a esplodere nel melodramma. More Raça, cineasta e attivista per i diritti delle donne, nel 2020 ha realizzato Andromeda Galaxy. Concentrandosi sul rapporto tra un padre vedovo, onesto, rifiutato dai luoghi di lavoro perché ritenuto troppo anziano, e la figlia adolescente, Raça ha fatto un film che è una dura critica alla società e alla politica di un paese senza prospettive che, se si può, conviene lasciare per cercare altrove un futuro più decente.
Blerta Basholli, 38 anni, nel 2021 ha diretto Hive (presentato alla Festa del cinema di Roma e il cui percorso festivaliero è cominciato a inizio anno al Sundance dove ha vinto tre premi). Ulteriore conferma della vivacità del cinema kosovaro che, come accade anche nelle altre cinematografie balcaniche, spesso porta sugli schermi storie che affondano nelle conseguenze delle guerre scatenatesi nella ex Jugoslavia a partire dagli anni ’90.

Come in Zana, Hive ha per set un villaggio nel segno del patriarcato dove la vita degli abitanti è inestricabilmente legata a un recente passato bellico che ha prodotto devastazioni fisiche e interiori, ferite ancora aperte, domande ancora senza risposta. Tanti uomini non hanno più fatto ritorno dal fronte, sono scomparsi, morti o di cui si sono perse le tracce. Affiorano fosse comuni. Fahrije è una delle tante donne che vorrebbe conoscere la verità su quanto accaduto al marito. Insieme a un gruppo di donne combatte per ottenere giustizia e contro una società dettata da comportamenti e regole rigidamente maschili.

BASHOLLI dichiara fin da subito la sua vicinanza filmica con Fahrije, accompagnando il tormento della protagonista nel lungo piano sequenza che apre Hive, che la vede aggirarsi attorno a una fossa comune, tra i teli che contengono resti umani appena esumati e ancora senza nome, fin quando non viene allontanata. Quella di Fahrije e delle altre figure femminili è una «missione» da coltivare con ostinazione nonostante l’ostracismo degli uomini che si manifesta anche in forme di violenza. Reagisce, Fahrije, alle pietre che le scagliano contro l’automobile, all’uomo che la vuole violentare, agli avventori del bar cui restituisce le pietre che le hanno tirato rompendo un vetro del locale. Reagisce al suocero severo, anch’egli chiuso in un proprio dolore, mentre instaura un rapporto di complicità con la figlia adolescente e il maschio più piccolo (l’abbraccio, forte, lungo, con la ragazza ormai cresciuta e con le prime mestruazioni e lo sguardo al figlio che sta crescendo costituiscono alcune delle scene più belle del film). Inoltre, si prende cura dell’alveare e vende con le amiche a un supermercato una conserva fatta da loro. E non si arrende.

Hive è un film sobrio, dove la camera a mano è usata in modo pertinente, che serve a Blerta Basholli per indagare emozioni e reazioni dei personaggi, e dove l’interpretazione di Yllka Gashi dà al suo personaggio sfumature che restituiscono una moltitudine di stati d’animo (l’attrice kosovaro-albanese aveva già lavorato con Basholli nel corto del 2011 Lena and Me). Hive è un’opera corale al femminile, intrisa di dolori trattenuti, di relazioni da una parte conflittuali e dall’altra complici (non solo quelle tra Fahrije e i figli, ma anche e soprattutto quelle fra le numerose donne che popolano le inquadrature con la loro determinazione).

SI TRATTA di non arretrare, di rimanere vigili nel perseguire un percorso che illumini troppi momenti ancora bui, di fare fronte comune anche se in paese Fahrije e le altre vengono considerate puttane perché non sottomesse, autonome, libere di avanzare rivendicazioni e giustizia. E di continuare a farlo anche davanti a prove che potrebbero sciogliere quel dolore trattenuto. Chiamata a riconoscere dei vestiti ritrovati e appartenuti al marito, Fahrije rifiuta l’evidenza e la possibile fine di un incubo durato anni. Non accetta la morte. D’altronde, come spiega la didascalia posta al termine, il villaggio dove è ambientato Hive fu davvero teatro di un massacro. E ancora oggi tanti corpi non sono mai stati ritrovati.