Italia, 2018, «era del terziario avanzatissimo e globale, plausibilmente quaternario», uno scrittore esautorato, privato di ruolo e scopo nella società in cui vive, ingaggia l’ultimo lavoro possibile: interagire con History, una bambina fortemente autistica, figlia di un potente tycoon della finanza, allo scopo di stabilire con lei un contatto e provare a contribuire alla creazione di una nuova e definitiva intelligenza artificiale, agognata da un evolutissimo quanto oscuro centro di ricerca, denominato «tecnopolo», che ha individuato nella complessità mentale della fanciulla la chiave di volta per portare a termine il progetto.

ALLE PRESE CON HISTORY, lo scrittore si troverà a indagare i cupi meandri della sua mente, insediati dalla Trista Figura, una spettrale e orrorifica presenza che incalza la bambina e ne pretende la scomparsa. Ma prima di tutto questo, un antefatto narrativo riavvolge il nastro agli anni ’80, quelli dei vecchi fantasmi duceschi, della crisi delle utopie socialiste, delle minacce atomiche, del riflusso politico, dell’eroina, della tv delle pailettes, del pallone super-tele che «inaugura i valori d’uso delle repliche fatte peggio» e della «noce di prosciutto al pepe degli auto-grill». Un momento di netta cesura tra ciò che è stato prima e ciò che è dopo, raccontato attraverso il vissuto di un bambino, che oscilla tra la crudezza delle strade di periferia e il capezzale del nonno che sta morendo, e che annuncia in senso figurato ed effettivo la morte del vecchio, il sopraggiungere del «nuovo».

L’ultimo romanzo di Giuseppe Genna, History (Mondadori, pp. 527, euro 24), catapulta il lettore in uno scenario che, nonostante l’ambientazione, non può più dirsi fantascientifico – siamo nel 2018, cioè il domani ma in buona sostanza l’oggi – perché il futuro è franato nel presente, e la dialettica umano-macchina giunge a un’estrema sintesi dalle cui conseguenze non è più dato sottrarsi, devono altresì essere affrontate.

Non più, quindi, un futuro declinato in letteratura mediante la distopia o l’ucronia – anche se i risvolti possono dirsi tali – ma un futuro che sprofonda incessantemente nel presente creando una voragine cognitiva ed esistenziale che grava sui destini individuali e collettivi dei personaggi e del loro mondo, di noi tutti e del nostro.
Come nell’ultima serie di Lynch, passando per vecchi apparati meccanici e sconosciuti congegni iper-tecnologici, lo spirito di Bob trasmigra nello spazio-tempo dal locale – la cittadina fittizia di Twin Peaks – al globale – le metropoli e i paesi reali di New York, Las Vegas, South Dakota –, così in History l’incubo del pozzo artesiano in cui finì Alfredino – tragedia nota, affrontata da Genna in Dies Irae (Mondadori, 2014), che segna in Italia una svolta decisiva verso la morbosa spettacolarizzazione mediatica – e la Trista Figura che insidia la bambina presagiscono in maniera incombente e pervasiva che i vecchi paradigmi epistemologici sono deflagrati, lasciando campo aperto all’automatismo e alla teoria della singolarità, a nuove possibilità – ma certo anche contraddizioni – umane e sociali.

E LYNCHANI, forse per questo, sembrano essere il linguaggio della narrazione – nella straniante soppressione, cifra di Genna, della «d» eufonica: «e è morta», «a accelerare» – e l’accostamento di immagini e allegorie che producono il conturbante. Ma non solo: l’impianto di History tiene anche insieme – e in questo si scorge la ricchezza e progressività del corpus poetico dell’autore: dalla fiction di genere all’ibridazione letteraria e fino all’approdo metafisico, attraversando tanto altro – diversi dispositivi narrativi quali l’autofiction (il «protagonista» è uno scrittore) e la metafiction (il Tecnopolo sorge dove prima era il grande palazzo editoriale, nella città che è evidentemente Milano), e si ispira, nella resa metronomica e plastica di situazioni e personaggi, a costruzioni che rimandano a Burroughs e Don Delillo (rispetto all’opera di quest’ultimo, Zero K, i riferimenti sono oltremodo espliciti).

LO SCRITTORE – assimilato, in quanto umanista, alle scimmie kubrickiane di Odissea nello spazio – ridotto a un «terminale di un imbuto che è storia» e al tempo stesso ultima intermediazione sensibile tra la mente umana e l’intelligenza artificiale; la società minata da distopie politiche (il governo dei tycoon), economiche (si è nell’era del post-denaro, leggi: dell’algoritmo finanziario) e spaziali (come il Bosco-che-sale, la cui esplicita allusione è al Bosco Verticale di Milano); e infine History (nomen omen), la bambina affetta da una sindrome autistica.

CON UN OLTRANZISMO poetico e una profondità speculativa proprie solo di un grande scrittore, Genna si muove su una narrazione che dialettizza con il punto più avanzato del progresso, in cui la Storia della specie umana tout court sembra volgere al termine, e che per questo non può eluderne i risvolti più inquietanti e contraddittori, ma anche le infinite possibilità.