La cicatrice disegna un percorso circolare sul volto del ragazzino appena operato nell’ospedale di Hiroshima. Dall’occhio chiuso arriva al collo, passando per l’orecchio: sembra un confine di filo spinato. Quando – il 23 luglio 1957 – Domon Ken (Sakata 1909 -Tokyo 1990) si reca a Hiroshima sono passati dodici anni dal primo bombardamento atomico della storia. Incredibile che ne siano passati molti di più perché un presidente statunitense si recasse in visita al Memoriale della Pace, come è avvenuto il 27 maggio scorso con l’abbraccio di Barack Obama a un sopravvissuto. L’orologio a cipolla che non ha più lancette, tra gli oggetti che il maestro dello «scatto assolutamente puro, affatto costruito» ha realizzato nella città, ricorda che lì il tempo si è fermato.

Nelle sue immagini ci sono bambini che fanno il bagno nella scenografia spettrale dell’Hiroshima Dome, ma molti di più sono quelli che mostrano i danni e le malformazioni provocate dall’atomica, gli orfani silenziosi. «Domon Ken racconta, scrive e registra il giorno e l’ora di arrivo a Hiroshima come un momento di cambiamento radicale della sua vita», afferma Rossella Menegazzo, curatrice con Takeshi Fujimori, direttore artistico del Ken Domon Museum of Photography di Sakata – di Domon Ken. Il maestro del realismo giapponese, la più importante retrospettiva mai realizzata fuori dai confini nazionali del prolifico fautore del «legame diretto tra macchina fotografica e soggetto» (come lo definisce Iizawa Kotaro in The History of Japanese Photography, 2003).

Un appuntamento imperdibile delle celebrazioni per i 150 anni di relazione tra Giappone e Italia organizzata al Museo dell’Ara Pacis di Roma (fino al 18 settembre). «In sei mesi, Domon Ken realizza negli ospedali una serie di scatti ai malati, ragazzini che stanno morendo nelle stanze d’ospedale, alle famiglie riunite intorno a chi sta soffrendo ancora le ferite di una guerra che si sta già dimenticando. E si rende conto di come la censura abbia impedito ai giapponesi, lui compreso, di conoscere la verità su quello che era successo ad Hiroshima. Diventerà la sua opera più importante, farà scandalo, ma segnerà anche il passaggio da un Giappone sconfitto a un paese che combatte per creare qualcosa di nuovo».

Le fotografie vengono pubblicate per la prima volta nel 1957 sulla rivista Fujin Gaho e, l’anno successivo, nel libro pluripremiato Hiroshima (Domon Ken zenshu) edito da Kenkosha, entrando a far parte nel 1972 della collezione permanente del MoMa di New York. Il fotografo tornerà a lavorare su questo soggetto anche nel 1968, poco prima della seconda emorragia celebrale che lo costringerà sulla sedia a rotelle. Tornato a Hiroshima, realizza un nuovo reportage che espone al Ginza Nikon Salon di Tokyo, a cui seguirà la pubblicazione di Living Hiroshima (1978).

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Il regista Ozu con la sua attrice

Il percorso espositivo racconta altre fasi del Giappone, incluso quello più prevedibile, ma non meno lirico dei ciliegi in fiore e dei giardini zen. Non è stato facile selezionare le 150 immagini, tra bianco e nero e colore (usato da Domon a partire dall’inizio degli anni ’50, soprattutto per la serie dei templi), in un archivio che ne contiene circa settantamila. Il museo che le conserva, primo a essere dedicato a un artista vivente è stato inaugurato nel 1983 e progettato dall’architetto Yoshio Taniguchi nella città natale del fotografo: a dirigerlo è sua figlia Mao Ikeda. Le stampe sono state realizzate per l’occasione, ricorrendo alla stampa a contatto da positivo, oltre che da negativi su pellicola e lastra di vetro, poiché un gran numero di vintage, nel tempo, è andato perduto.

Seguendo le orme di una poetica incentrata su verità (jijitsu) e realtà (shinjitsu), la mostra illustra i reportage più significativi realizzati dal maestro tra il 1935 e la fine degli anni ’70. «Domon fotografava solo ciò che amava. Lui aveva una spiegazione per la sua solida estetica: il suo sogno iniziale era stato diventare pittore. Aveva fame di tutto ciò che è bello, e ciò che è bello deve anche essere forte», ricorda nelle pagine del catalogo edito da Skira il curatore Fujimori, assistente del fotografo durante la realizzazione di Kojijunrei (Pellegrinaggio ai templi antichi). «Per il lavoro sulle sculture buddhiste – continua – Domon passava sempre attraverso cinque fasi: studiava sui libri, guardava le sculture che lo avevano colpito, coglieva l’emozione suscitata da alcune di esse (solo quelle avrebbe fotografato), si concentrava in un’accurata e dettagliata osservazione (a questa fase dedicava più tempo delle riprese stesse) e, infine, scattava le fotografie. Quando passava ai primi piani si concentrava con estrema attenzione nell’osservazione dei dettagli, distinguendo le parti originali dalle integrazioni successive: focalizzava lo sguardo solo su ciò che era autentico».

Anche alcune pubblicazioni originali trovano spazio in mostra, insieme alla vecchia Nikon e a un taccuino – uno dei tanti – su cui il reporter disegnava e scriveva annotazioni sulla ceramica giapponese, di cui era un grande estimatore e collezionista. Amico dei più eminenti intellettuali del tempo, tra i personaggi da lui ritratti riconosciamo Ozu con l’attrice Kuga Yoshiko, Mishima, Tanizaki, come pure i due amici fraterni: il grafico Yusaku Kamekura e Sofu Teshigahara, fondatore della scuola Sogetsu di ikebana. Anche nella pietra, o negli altri materiali in cui sono scolpiti i volti dei guardiani del Muroji di Nara, dei burattini del teatro Bunraku, del dio del vento o magari dei mille Kannon del Sanjusangen-do di Kyoto, l’autore riesce a cogliere un fremito che li rende «umani». Ma nel suo sguardo c’è anche rigore e severità. Lavorare con lui era tutt’altro che facile, tanto che era soprannominato dai suoi allievi «Domon il diavolo» (Oni no Domon).

Lo ricorda anche l’assistente più anziano, Ushio Kido che lavorò con il maestro per la serie Bambini di Chikuho (1959), toccante documentazione di denuncia sulla situazione di miseria nei villaggi di minatori del sud del Giappone. A Roma, in occasione dell’inaugurazione della mostra, i due assistenti Fujimori e Kido hanno anticipato qualcosa del volume che sarà pubblicato in autunno dalla testata Asahi Shinbun, in cui raccontano la loro esperienza con «Domon il diavolo. «Bisognava cogliere il suo insegnamento solo attraverso l’osservazione e aiutandolo durante gli scatti. Avevamo paura di sbagliare: quando succedeva, si arrabbiava e arrivava una botta o un pugno, sulle spalle o sulla testa».

Finito il lavoro, però, il clima tornava ad essere disteso e il fotografo non mancava mai di offrire un buon pasto a tutti i suoi assistenti. Svincolandosi dal retaggio pittorialista e allontanandosi dalla fotografia di propaganda, che era stato il suo pane nel periodo precedente alla seconda guerra mondiale, Domon Ken è quindi il massimo esponente nel Sol Levante del realismo sociale, che promuove anche attraverso l’approccio teorico-critico. Conosce certamente «l’istante decisivo» di Henri Cartier-Bresson, anche attraverso la mostra La foto d’oggi: Giappone e Francia organizzata nel 1951 al Museo nazionale d’arte moderna di Tokyo con le fotografie di Cartier-Bresson, Brassaï, Doisneau. Come molti di loro, anche il fotografo giapponese usa una pratica e maneggevole Leica 35mm, indispensabile per stabilire un dialogo ravvicinato con il soggetto. Inquadra frontalmente per narrare la grande storia attraverso le piccole storie, almeno finché non è costretto – colpito da una seconda emorragia cerebrale – a lavorare dalla sedia a rotelle, con il treppiedi e l’ausilio degli assistenti.

Ma il suo realismo è anche la formulazione di un pensiero socialista mai dichiarato apertamente, ma confermato alla fine della sua carriera. «Ha affermato di aver utilizzato spesso il termine sociale, evitando di dire socialista che sarebbe stato sicuramente soggetto a censura politica, provocando anche l’allontanamento del gruppo di fotoamatori che lo aveva sempre sostenuto», ricorda la curatrice Menegazzo. Riuscire a catturare il momento di gioia nelle difficoltà del quotidiano, fa parte dell’allenamento all’osservazione come nella serie I bambini di Koto (1093-54), con il ragazzino che ride di gusto accanto al compagno di giochi che ha una lucertola sulla testa.