Nel 1968 usciva nelle sale giapponesi The Man Without a Map, la quarta ed ultima collaborazione fra il regista Hiroshi Teshigahara e lo scrittore Abe Kobo, uno dei connubi cinema/letteratura più riusciti nella storia della settima arte. Fra il 1962 ed il 1968 infatti, i percorsi artistici di due delle menti più geniali uscite dal dopoguerra nipponico avrebbero creato una tetralogia filmica che ancora oggi ha moltissimo da offrire e non ha perso niente della sua carica esteticamente eversiva.
Artista a tutto tondo, documentarista, autore di cinema sperimentale ma anche scultore, pittore e maestro di ikebana, Teshigahara incontra il genio di Abe nei primi anni sessanta.

Il primo frutto della loro collaborazione è Pitfall, film tratto da uno sceneggiato televisivo dello stesso Abe ed ambientato in un villaggio deserto che in realtà è abitato dalle anime perdute della popolazione del luogo. Il tono surreale e kafkiano del primo film si sviluppa pienamente nel secondo lavoro nato dalla collaborazione fra i due, Woman in the Dunes, in Italia conosciuto come Donna di sabbia, del 1964 e tratto dall’omonimo romanzo di Abe. Le vicende di un entomologo che si ritrova intrappolato con una donna in una conca fra le dune è in parte mito di Sisifo ed in parte allegorica esplorazione dell’assurdità della condizione umana e rimane uno dei capolavori del cinema giapponese del dopoguerra, anche grazie alle musiche stranianti del grande Toru Takemitsu, compositore che collabora a tutti e quattro i lungometraggi in questione. The Face of Another del 1964, anche questo tratto da un romanzo dello scrittore, è forse il frutto più maturo della collaborazione fra i due e l’opera in cui le tendenze sperimentali e moderniste di Abe vengono meglio trasposte in immagini.

Ambientazioni e situazioni quasi da fantascienza, un uomo il cui volto bruciato in un incidente ne riceve uno nuovo con un’operazione, ma di fatto distruggendo e moltiplicando la sua identità, si rivelano solo un pretesto per una profonda esplorazione dello spazio interno quasi ballardiana e con una fantasia deviata e un gusto per il grottesco di stampo surrealista degno del miglior Dürrenmatt. Anche nell’ultima colaborazione fra i due, A Man without a Map, l’apparente ed ordinaria storia di un investigatore privato alla ricerca di una persona scomparsa, si trasforma in uno specchio in cui il protagonista prima cerca e poi perde se stesso in una serie di movimenti a vuoto. L’splorazione del nulla che si cela dietro la maschera che ognuno porta fin dal momento della propria nascita e la conseguente dissipazione del senso di identità è leggibile, in tutte le quattro collaborazioni, anche come una reazione al processo di industrializzazione e progresso che ebbe luogo nel dopoguerra giapponese.

Gli anni sessanta, nell’arcipelago ma anche nel resto del mondo, sono infatti un periodo in cui l’accelerazione del progresso e la conseguente modernizzazione del paese va di pari passo con un senso di alienazione dovuto alla distruzione di vecchi modi e modelli di vita. La feroce urbanizzazione comporta anche un senso di alienazione urbana e di vuoto spirituale in cui vengono interiorizzate tutte le mutazioni sociali e lo slittamento di paradigma in corso. Il merito e la bravura di Abe e Teshigahara sta nell’aver creato un meccanismo filmico e letterario fortemente simbolico e suggestivo in cui i cambiamenti del microcosmo interiore e del macrocosmo storico si riflettono l’un l’altro, non a caso nei film e nei romanzi abbondano specchi, effetti prismici ed immagini doppie.

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