«Volevo raccontare questa storia da tanto tempo», fa sapere in un messaggio la regista pakistana Iram Haq di Cosa dirà la gente che sarà nelle sale all’inzio di maggio, «ma ero troppo giovane e non sapevo come fare. La situazione è comune a molte ragazze pakistane che vivono in Norvegia e altrove in Europa». Colpisce la sconvolgente attualità del film presentato in anteprima al Bif&st di Bari (22-25 aprile) che evoca in ogni sfumatura quello che potrebbe essere successo alla venticinquenne uccisa da padre e fratello perché rifiutava il marito scelto dalla famiglia. Nel film la protagonista adolescente sorpresa dal padre a baciare un compagno di scuola è vittima di un accerchiamento familiare e della comunità pakistana perché sia punita e non faccia venire idee di emancipazione occidentale alle altre ragazze («A vivere come questi occidentali diventerai pazza e morirai di solitudine»).

 

Il filo sottile che lega la ragazza agli affetti familiari le fa abbandonare la protezione dei servizi sociali, malmenata dal padre insieme al ragazzo, portata con l’inganno in Pakistan a casa dei parenti per allontanarla definitivamente dai pericoli. Il film riesce a seguire tutta la trama sottile dei condizionamenti, del controllo sociale, dell’amore paterno trasformato in smisurato tentativo di sopraffazione, della chiusura di tutta la linea femminile della famiglia e soprattutto fa trasparire i conflitti interiori della ragazza sopraffatta dai sensi di colpa e come la tradizione familiare sia stata più forte dell’ambiente nordico in cui si è trovata a vivere fin da piccola (non che in Italia negli anni cinquanta i condizionamenti fossero tanto diversi, ma l’emancipazione è stata ben più veloce). Nel film i silenzi riescono ad essere efficaci come confessioni, il senso di prigione reale e mentale accerchia lo spettatore.

 

I tentativi  di non far sapere all’esterno la reale situazione senza via d’uscita (minacce, botte e rapimento) risaltano ancora di più quando sentiamo la sera stessa al telegiornale gli sviluppi del caso di cronaca appena successo ci sia il tentativo di coprire la famiglia e si parla di morte accidentale «per malore da pressione bassa» e proscioglimento di padre e fratello dall’accusa di omicidio.

 

Un eccezionale concerto ha reso omaggio ad Armando Trovajoli autore di musiche da film, con la direzione artistica di Rita Marcotulli al pianoforte, Luciano Biondini alla fisarmonica, Daniele Tittarelli al sax, Alex Tavolazzi al contrabbasso, Alessandro Paternesi alla batteria, Enrico Rava alla tromba, con la voce di Peppe Servillo.

 

 

Il film di Mario Canale e Annarosa Morri Armando Trovajoli cent’anni di musica, è un ulteriore omaggio, una lunga appassionante intervista in cui il maestro seziona, ricorda nei dettagli il suo lavoro nel mondo del cinema nato per caso da quel Negro Zumbon cantato e ballato da Silvana Mangano, ideato in ventiquattr’ore per Lattuada, dopo anni e anni di studi di volino e pianoforte, di esperienza jazzistica e lavoro nei night, diploma con lode al Conservatorio per poi dare la voce ai tanti classici da Scola, De Sica, Magni ed anche Dino Risi con cui ha firmato più di trenta film senza mai trovarsi in sintonia. Con Bach in cima ai suoi pensieri.

 

Il documentario prende in esame una fantastica carriera, spiega in dettaglio come si costruisce la voce musicale di un film, o meglio come si costruiva un tempo perché oggi, senza le grandi orchestre, col suono ingombrante dell’elettronica, «viene un suono «squinzio». Un viaggio affascinante raccontato con una voce dalle pause eloquenti e anch’esse musicali, breve storia del nostro cinema e della commedia musicale, un imprescindibile materiale di studio, ritratto di un gentiluomo del cinema.