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Hip hop, l’era strumentale

Hip hop, l’era strumentaleDj Vadim

Scene/Un genere caratterizzato da sonorità psichedeliche e dilatate, e dall’assenza della voce. Ha avuto un grande impatto a metà anni ’90. A svilupparlo e portarlo in classifica nomi come Dj Shadow, Dj Krush, Dj Vadim e Coldcut

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 2 aprile 2022

C’è stato un periodo, a metà anni Novanta, in cui l’hip hop strumentale non aveva motivi particolari per invidiare la supremazia del rap, suo parente stretto. I riscontri di pubblico erano ovviamente sbilanciati a favore dei brani in cui figurava la voce ma, nello stesso tempo, erano anni in cui il mercato non badava ossessivamente ai numeri come oggi, in cui le etichette discografiche facevano scouting senza poter usare come filtro i social network e le piattaforme streaming, e la maggioranza dei giornali dava rilievo anche a fenomeni underground. Il rap non aveva ancora raggiunto la popolarità massima, un po’ perché non aveva alle spalle così tanti anni di storia, un po’ perché ancora non aveva conquistato i dancefloor dei club e non si era diffuso in qualsiasi parte del mondo. In questo scenario, la produzione underground era fertile e articolata, tanto che in alcuni paesi (come l’Italia) il rap mainstream praticamente non esisteva.
È il triennio che va dal 1994 al 1997 il periodo clou per l’hip hop strumentale: tramite l’etichetta regina del filone, l’inglese Mo’ Wax di James Lavelle, sono usciti i due volumi della storica raccolta Headz e, contemporaneamente, hanno raggiunto una buona popolarità alcuni dei produttori più significativi di questi tappeti sonori fumosi e dall’andamento non sempre lineare, come il giapponese Dj Krush, il russo Andre Gurov – cresciuto a Londra e meglio noto come Dj Vadim -, i francesi Dj Cam e La Funk Mob (futuri Cassius), i britannici, rappresentanti della scuola più eclettica, come Coldcut, Dj Food e Luke Vibert, e naturalmente l’americano Dj Shadow, il fuoriclasse di questo gruppo. Oltre a questi, c’erano decine di altri interpreti rilevanti, compresi quelli che hanno contribuito alla causa solo con un singolo o un ep. Erano anni in cui l’inclinazione verso questi ritmi senza voci era ben diffusa in molti paesi e a questo stile erano state accostate due definizioni che in qualche modo alludevano a un andamento irregolare, alla ricerca sonora e ad atmosfere psichedeliche e dilatate (visto che gli influssi del dub erano netti): hip hop astratto e trip hop (questa, coniata nel 1994 da un giornalista di Mixmag, è stata quasi subito «scippata» da chi invece la voce la usava eccome, vedi i Portishead e i loro simili). Il rap viveva un momento particolarmente ispirato e continuava ad allargare il proprio pubblico, ma la crescita dell’hip hop astratto, anche considerando solo il gap principale, l’assenza di voci appunto (a parte qualche campionamento vocale), non era da meno. Non che le due scene fossero in conflitto: c’erano scambi e collaborazioni, in qualche modo si alimentavano a vicenda. A parziale conferma di questo legame, su alcuni dischi dell’etichetta di Dj Vadim, la Jazz Fudge, campeggiava un singolare invito rivolto al pubblico: «Support the Stop r’n’b Killing Hip Hop Movement». Anche sul retro copertina di A New Rap Language (1997), disco dal titolo emblematico del producer anglo-russo, saltava all’occhio questo proclama.

ANTAGONISMI
Dj Vadim collaborava con vari rapper, parlava di Movimento Hip Hop e identificava l’r’n’b come antagonista di questo: il suo messaggio, in pratica, diceva che l’avanzata della melodia più mielosa stava compromettendo la musica hip hop, la stava proiettando nel pop. Dunque nell’hip hop astratto, oltre a non esserci parole, in media la melodia era mal vista: una concezione dell’hip hop che oggi sembra irreale e, in effetti, è difficile trovare una scena erede di questa esperienza se non in qualche rappresentante underground che fa più ascolti su Bandcamp piuttosto che su Spotify.
Tra settembre e dicembre del 2021, mentre si celebrava il venticinquennale dell’uscita di Endtroducing….. (Mo’ Wax), l’epocale album di Dj Shadow, il più importante capitolo discografico di questa storia, quasi contemporaneamente, in Italia, si discuteva ancora di come, dall’avvento della trap in poi, gran parte della musica hip hop sia diventata una specie di pop. Proprio su queste pagine, nel 2008, il cantautore francese Sébastien Tellier aveva detto, senza pensarci un secondo, «il pop di oggi è l’r’n’b americano». Erano passati poco meno di quindici anni dal proclama stampato sui dischi di Dj Vadim e ormai era oltremodo evidente l’avanzata dell’r’n’b, di quella musica che, rifacendosi al soul e riprendendo certi tratti del rap, si era avvicinata sempre di più alla gente dei quartieri, al popolo, conquistando le classifiche e allargando costantemente i suoi confini all’interno della nazione hip hop. Oggi che questa ascesa ha toccato la vetta da tempo e l’r’n’b ha influenzato e coinvolto artisti dai background più diversi, ripensare al triennio clou dell’hip hop astratto, riascoltare quelle basi strumentali che in quel momento erano la forma più vicina al jazz della cultura hip hop, anche considerando che alcuni di quegli artisti hanno preferito accasarsi nella scena elettronica, c’è la sensazione che si sia trattato di un’occasione persa. Per completezza, non va sottovalutato come, negli ultimi venticinque anni, ci sia stato anche chi ha fatto progredire l’hip hop strumentale con meno dogmi, raggiungendo risultati eccellenti, e due nomi su tutti sono quelli di Madlib e J Dilla, affermatisi all’inizio degli anni Duemila. Successivamente, nel 2008, è venuta alla ribalta una realtà come l’etichetta losangelina Brainfeeder di Flying Lotus, assolutamente inclusiva rispetto agli stili qui messi in contrapposizione, mentre un’altra casa discografica indipendente e simbolo di metà anni Novanta, la londinese Ninja Tune, ha fatto qualcosa di simile seguendo, anno dopo anno, un percorso musicale sempre più aperto (non solo rispetto ai ritmi urbani) che l’ha mantenuta viva e vegeta, al contrario della Mo’ Wax e della Jazz Fudge, morte rispettivamente nel 2002 e nel 2004.

CONCEZIONI EVOLUTE
Insomma, certe concezioni musicali si sono evolute a prescindere dal mercato, il purismo sembra aver fatto il suo tempo e l’r’n’b non può essere considerato l’unico responsabile del processo per cui l’hip hop astratto è passato decisamente in secondo piano rispetto all’epoca di Endtroducing….. Allo stesso tempo pare innegabile, però, come l’implacabile ascesa della melodia all’interno della scena hip hop, abbia senza dubbio, complice l’appeal popolare, spostato attenzioni e risorse altrove, frenando o deviando indirettamente certe stimolanti espressioni dell’underground. Per esempio Ki-Oku, l’album del 1996 firmato da Dj Krush insieme al trombettista Toshinoro Kondo e uscito in Giappone per Sony, fa capire come anche le major, all’epoca, stessero investendo sulla qualità di questo filone, perché l’incontro tra i beat notturni del primo e il jazz morbido del secondo costituiscono ancora una testimonianza di una delle direzioni suggestive che stava prendendo l’hip hop astratto in quegli anni.
Nello stesso anno è uscito per Interscope (etichetta del gruppo Universal) Subliminal Sandwich dei Meat Beat Manifesto, esempio emblematico, invece, di come questa esperienza sonora stesse attirando sempre più attenzioni nella scena elettronica che, avendo un pubblico particolarmente sensibile ai ritmi e abituato all’assenza di voci, successivamente l’ha inglobata, contaminata e portata versi altri stili e altre sottoculture urbane. D’altronde le ispirazioni di tutti questi artisti erano molteplici (si è detto di dub, jazz, psichedelia e si può aggiungere l’ambient) dunque il distacco dalla scena hip hop, all’epoca più che mai affetta da uno spiccato purismo, anche per questo è stato naturale.

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