Nella terza tornata di primarie americane Hillary Clinton si è imposta su Bernie Sanders nei caucus del Nevada mentre Donald Trump ha inanellato il secondo successo consecutivo in South Carolina sbaragliando gli avversari con un imponente margine di 10 punti.

Nella prima votazione in uno stato del West, con un’alta percentuale di elettori latinos, Hillary ha dimostrato di saper consolidare i voti della comunità ispanica con cui ha storici legami. Forse ancora più importante per lei, è prevalsa in una base elettorale essenziale per il suo partito: i sindacati. Nel 2008 l’endorsement dei potenti sindacati dei lavoratori dei casino, come la “culinary” di Las Vegas, era stato un contributo cruciale alla campagna di Obama. Quest’anno il sindacato ha mantenuto la neutralità fra i due candidati ma gli storici legami dei Clinton con le associazioni dei lavoratori hanno chiaramente contribuito alla sua vittoria su Sanders (per 52,7% contro 47,2%).

Ha tenuto insomma il primo firewall, il “cordone di sicurezza” di Hillary, frutto di contatti decennali fra ispanci e afro americani. Nel suo discorso a Las Vegas, Hillary si è rivolta a minoranze etniche, giovani e donne, citando Flint e Ferguson come esempi di intollerabile ingiustizie. Aperture calcolate per ricostituire la coalizione sociale che portò alla casa Bianca Barack Obama.

Una vittoria di misura, è vero, ma simbolicamente pesante e di cui Hillary aveva un disperato bisogno per arginare l’insurrezione a sinistra di Bernie Sanders e riprendere una narrazione vincente.

Opposta la situazione nelle primarie repubblicane del South Carolina dove il candidato “insurrezionalista” Donald Trump ha ottenuto il 32% dei voti e continuato a gettare lo scompiglio fra gli avversari, forzando il ritiro di Jeb Bush, l’uomo che solo qualche mese fa sembrava essere predestinato alla nomination. Il suo forfait nello stato in cui in precedenza avevano vinto suo padre e suo fratello maggiore, segna anche il tramonto di una dinastia politica. Ancora di più, sancisce oltre ogni residuo dubbio lo scisma epocale che sta sconvolgendo il partito conservatore americano

Ancora una volta l’unica gara combattuta fra i repubblicani è stata per il secondo posto, fra i due “cubani” Ted Cruz e Marcio Rubio, entrambi col 22% dei consensi (alla fine l’ha spuntata Rubio per mille e rotti voti).

Alla  luce del ritiro di Bush, Rubio esce quindi dal South Carolina come presunto candidato dell’establishment e possibile ultima opzione del GOP per contrastare Donald Trump. Un compito che potrebbe tuttavia risultare arduo, come ha dimostrato la vittoria decisiva del paladino antipolitico ieri anche fra un elettorato evangelico al 75%.

Soprattutto, Trump ha confermato di avere una presa apparentemente inamovibile su “l’ala blue-collar” della base repubblicana, un segmento di elettori affatto preoccupati delle carenze programmatiche della “Trump doctrine”.

 

trump ittoria carolina primarie foto REUTERS Jonathan Ernst lapresse

 

Ai tifosi che lo hanno accolto con il consueto coro di “USA – USA”, il miliardario “outsider”  ha reiterato la mezza dozzina di slogan frammisti a interiezioni patriottiche che costituiscono la sua dialettica elementare quanto efficace coi suoi sostenitori. Al di là delle assurdità su cui è predicato (costruire il muro sul confine e farlo pagare ai Messicani, farla pagare alla Cina e schiantare l’Isis con un enorme esercito), la sua promessa di “rifare grande l’America” è un mantra salvifico per i suoi supporter, in grande maggioranza uomini bianchi poco scolarizzati e di ceto medio-basso.

Dai suoi elettori lo slogan è  comunque percepito come la promessa di riportare l’America a “quella di una volta”, quella che è sparita inghiottendo gli impieghi, i salari e le certezze di una maggioranza bianca in un vortice incomprensibile di multietnia, globalizzazione e calante influenza globale. Un’operazione palesemente irrealizzabile ma che nulla toglie all’effetto catartico della retorica infarcita di insulti e di rabbia che riflette perfettamente i livori che ribollono in molta America profonda.

Il che spiega come Trump in una settimana abbia potuto essere biasimato dal papa, criticato da Obama e abbia perfino potuto accusare George Bush di essere responsabile dell’11 settembre – stravincendo tuttavia. Agli occhi dei suoi partigiani quelle critiche non hanno infatti che consolidato le sue credenziali “anti-sistema”.

Le critiche di papa Francesco in particolare hanno fatto ben poco per diminuire il suo appeal, soprattutto in una campagna già tutta calibrata per ribadire l’eccezionalismo americano in cui il peso dei cattolici è del tutto relativo. Intanto lo zoccolo duro teocon è di fede evangelica protestante, avventisti teologicamente e ideologicamente più vicini a Israele che a Roma.

Nel suo populismo il reality star poi è agnostico, dedito al culto di se stesso e al coltivare il rancore diffuso e informe contro i diversi.

La domanda che in modo ancora più insistente da ieri si pongono in molti (soprattutto nel comitato centrale repubblicano), è quale potrebbe essere il possibile scenario per fermare un candidato le cui probabilità di prevalere in un’elezione generale rimangono comunque tutt’altro che certe.

Per il momento nulla sembra poter rallentare il suo improbabile percorso, che potrebbe facilmente risultare in una disastrosa spaccatura del partito in fase di convention.

 

primarie bush foto reuters lapresse