Con una manciata di giorni rimasti le campagne di Hillary Clinton e Donald Trump sono impegnate nella volata finale negli stati chiave in cui con ogni probabilità si deciderà il prossimo inquilino della Casa bianca. Così ieri Hillary è stata impegnata in comizi in Florida e in Ohio. Il primo è un melting pot di popolazioni eterogenee che vanno dai numerosi pensionati (molti di cui ebrei liberal provenienti dal nordest), distretti solidamente conservatori, frange estreme della destra come gli espatriati cubani anticastristi e una popolazione ispanica più recente dalle forti simpatie democratiche.

Una miscela che equivale tradizionalmente ad una sostanziale parità fra i partiti e che nel 2000 costò la presidenza ad Al Gore, proprio per una manciata di voti. Anche quest’anno potrebbe verificarsi una situazione analoga, oppure l’ago della bilancia potrebbe essere l’Ohio (o un altro stato della fascia deindustrializzata del rust belt come il Michigan, il Wisconsin o la Pennsylvania). In questa regione il rabbioso messaggio di rivalsa degli ultimi comizi di  Trump fa presa emozionale su di una working class decimata dalla delocalizzazione e ben disposta a volgere il proprio impotente rancore contro immigrarti, minoranze ed altri capri espiatori.

Se l’evento che più ha nuociuto a Trump è stato il video fatto strategicamente  trapelare sulla sua aggressiva misoginia, quest’ultima è stata un settimana devastante per Hillary, iniziata con l’annuncio di un impennata dei costi del ticket previsto dall’Obamacare, la riforma sanitaria di Obama, e finita con le insinuazioni del direttore del Fbi James Comey. Anche se gli ultimi sondaggi sembrano indicare che sia stato evitato il paventato crollo, è evidente  che le insinuazioni non abbiano giovato alla candidata, dirottando in extremis la narrazione della campagna sulle sue presunte malefatte e costringendola sulla difensiva nel momento più delicato.

Il contrattacco democratico non si è fatto attendere, guidato da Harry Reid. Il capogruppo democratico  del senato ha esecrato Comey per l’entrata a gamba tesa specie alla luce del suo speculare silenzio sull’indagine parallela sui legami «russi» del candidato repubblicano. Il sette ottobre scorso un comunicato ufficiale del governo ha ufficialmente legato i ripetuti hackeraggi dei server del partito democratico ad ambienti informatici russi. Pur avendo aperto un indagine, Comey non volle all’epoca sottoscrivere il documento. E negli ultimi giorni  sono aumentate le voci attorno a possibili connivenze di Trump col governo di Putin, un leader che –  berlusconianamente – ha ripetutamente elogiato.

Fra queste un articolo di Slate ha rivelato che gli specialisti che hanno analizzato “interferenze” informatiche provenienti dalla Russia avrebbero rilevato un “insolito traffico” di dati fra un server di proprietà di Trump e i computer della Alfa Bank, una  holding il cui titolare ucraino ha stretti legami con Putin. Allo stesso tempo la Nbc ha comprovato l’esistenza di un indagine attiva del Fbi su Paul Manafort, fino a settembre il manager della campagna Trump e precedentemente advisor politico di Viktor Yanukovych e trait d’union fra il suo governo filorusso e investitori americani in Ucraina.

Elementi che pur senza fornire alcuna prova definitiva, sollevano lecite domande sulle connection di Trump al paese in cui nel 2013 tenne un edizione del concorso Miss Universo, che gestisce. La più potenzialmente esplosiva delle congetture riguarda l’ipotesi di un preciso progetto di sponsorizzazione di Trump ai fini di destabilizzare il rivale geopolitico. Una teoria cui il settimanale Mother Jones ha dedicato un articolo citando un «ex membro della intelligence occidentale esperto in Russia». La fonte anonima sostiene di aver fornito proprio al Fbi indizi su un «progetto manciuriano» perseguito da anni.

Nel rapporto dell’agente, esaminato da Mother Jones, si legge: «Il regime russo ha coltivato sostenuto e assistito Trump da almeno cinque anni con lo scopo di provocare divisioni all’interno dell’alleanza occidentale». Un’ipotesi che sarebbe confortata dalle dichiarazioni di Trump sulla necessità di limitare il ruolo americano nella Nato.

Dichiarazioni che sarebbero esplosive in ogni altra campagna elettorale ma che nell’attuale contesto, con milioni di americani che hanno già votato, si perdono in gran parte nella cacofonia generale. È vero che negli ultimi giorni si è registrato un recupero di Trump sulle previsioni nazionali: sembra essersi attestato su una manciata di punti (dai 2 ai 5 a seconda dei rilevamenti). Più incerto l’effetto sugli swing states – il numero che conta davvero. Hillary sembra indietro rispetto ai dati di Obama quattro anni fa ma comunque in vantaggio. Nella media dei sondaggi le probabilità di una presidenza Hillary sono ancora attorno al 74%;  minore rispetto all 82% di una settimana fa ma ancora sostanziale.