Le vittorie di Trump e di Hillary Clinton a New York proiettano le presidenziali Usa verso la fase finale delle primarie in cui saranno sempre più importanti le regole interne dei partiti.
La vittoria di Hillary Clinton martedì è stata dovuta in parte alle primarie «chiuse», riservate non solo a chi si era ufficialmente registrato come elettore democratico, ma chi lo aveva fatto almeno sei mesi fa, ad ottobre, escludendo i numerosi elettori che si sono andati avvicinando al movimento di Bernie negli ultimi mesi e settimane.
Allo stato attuale la Clinton è in pole position per aggiudicarsi la nomination grazie all’aiuto di un altro cruciale meccanismo per garantire la continuità del partito – i superdelegati.
Se infatti Hillary ha un vantaggio di 1413-1145 nei delegati vinti alle urne, dispone anche di 487 (contro appena 40) «superdelegati» sostanzialmente assegnatigli da quadri di partito che hanno ogni interesse a bloccare un outsider (perdipiù un senatore indipendente che non ha mai fatto parte dei gruppi democratici in parlamento).
Entrambi i partiti sono in crisi e affrontano un «insurrezione» popolare contro l’establishment. La primaria di New York è stata la chiara dimostrazione che per quello democratico hanno tenuto i meccanismi «di sicurezza» istituiti dopo e caotiche primarie del 1968 e 1972. Nel primo caso si giunse alla convention dopo gli assassinii di Martin Luther King e Robert Kennedy. Il partito scelse di nominare il delfino di Johnson, Hubert Humphrey, sul candidato anti-guerra in Vietnam, Eugene McCarthy mentre all’esterno Chicago bruciava. Quattro anni dopo le forze «movimentiste» ebbero la meglio sulle correnti tradizionali di partito ma il candidato, George McGovern perse malamente contro Nixon.
Per poter montare una sfida efficace Sanders dovrebbe quantomeno pareggiare i delegati prima di luglio. Mancando questo risultato sarà molto difficile poter chiedere che vengano rimessi in gioco i superdelegati – i grandi elettori che da soli avrebbero il potere di riaprire la nomination. È probabile invece che dopo il risultato di New York, il partito cominci a serrare i ranghi dietro Hillary. In confronto il partito repubblicano sembra allo sbando senza una efficace strategia per sbarrare la strada al capolista paradossalmente inviso al partito stesso. Trump potrebbe plausibilmente sfiorare, ma non ottenere, i 1.237 delegati necessari, con un distacco comunque imponente su Ted Cruz.
Il partito dovrà allora decidere se imporre alla lettera le regole e negargli la nomination per tentare di raggiungere un accordo in convention, con ottime probabilità di scontentare tutti e arrivare spaccato alle elezioni generali di novembre. In questo contesto i rimanenti stati, fino agli ultimi, New Jersey e California il 7 giugno, se non una formalità sono ormai solo metà della gara. In entrambi i partiti, ma soprattutto nel Gop, la campagna si è già spostata sul fronte interno.
Oggi si riunisce il congresso del comitato nazionale Gop in Florida per discutere tra l’altro delle regole che governeranno la convention e che diventano ormai cruciali. Non a caso saranno presenti, nel tentativo di perorare le rispettive cause, i rappresentanti di tutti i candidati, compreso Trump che ancora lunedì ha nuovamente diffidato il partito dal tentare di «sottrargli la vittoria».
Bernie Sanders intanto continuerà a raccogliere consensi e a sottolineare una netta demarcazione generazionale nel suo partito e nella politica Usa, che dopo Occupy e Black Lives Matter, prova a trovare una voce progressista unitaria.
Ma la domanda principale potrebbe cominciare a riguardare quale forma potrà prendere la «rivoluzione politica» e il «movimento» di cui Sanders ha gettato le basi anche se il candidato non dovesse prevalere.