Dopo 48 ore di congratulazioni a Hillary per aver «vinto» il dibattito di lunedì sera è venuto il momento di farsi qualche domanda in più. Per esempio: a chi parlavano i due candidati? Agli elettori incerti, quelli capaci di verificare con i famosi facts-checkers, gli addetti alla verifica delle affermazioni di Trump e Clinton, se i rispettivi piani fiscali erano convenienti per loro?

No, gli elettori veramente indipendenti equidistanti dai partiti maggiori, nell’America del 2016, sono più rari dei panda giganti e probabilmente avrebbero diritto a chiedere la protezione dell’Endangered Species Act. I candidati non parlavano a loro ma ai propri sostenitori, a chi cercava conferme alle proprie opinioni, un meccanismo psicologico ben conosciuto che il giornalismo americano, prigioniero dei miti dell’obiettività e dell’equilibrio, si ostina a negare. I media tradizionali si sono sperticati in lodi di Hillary per la sua precisione, conoscenza dei fatti, precisione nelle risposte: all’americano medio è probabilmente apparsa invece come un robot, rigida e imbarazzata nelle risposte, il prototipo del politico che sorride troppo e promette cose che verranno dimenticate la sera stessa delle elezioni. Agli americani senza educazione universitaria che vedono i propri salari stagnare da 40 anni, e che non hanno in banca neppure i soldi sufficienti per farsi curare se prendono una bronchite, Hillary non piaceva prima del dibattito e nulla di ciò che ha fatto o detto lunedì sera li avrà fatti cambiare idea.

La Clinton era già alla Casa bianca negli anni Novanta, c’è rimasta per otto anni insieme al marito, ed è stato in quegli otto anni 1993-2001 che l’infernale meccanismo della delocalizzazione industriale si è accelerato, creando il deserto in gran parte del Midwest operaio. Donald Trump, nell’opinione di molti esperti, è stato un «pessimo comunicatore», il suo linguaggio del corpo era isterico, le frasi si accavallavano confusamente l’una sull’altra. Può darsi, ma quando ha detto seccamente a Hillary che il trattato di libero scambio con Messico e Canada, fortemente voluto da Bill Clinton e ratificato con i voti dei repubblicani nel 1993, «è stato il peggior accordo mai concluso» metà dell’America davanti ai televisori ha sicuramente applaudito. E Hillary balbettava quando doveva spiegare la sua posizione sul nuovo trattato con le nazioni del Pacifico, il Tpp fortemente sostenuto da Obama.

Trump è un improbabile campione della classe operaia ma Hillary rappresenta Wall Street, con una riverniciatura di compassione low-cost e di argomentazioni riprese dalla campagna di Bernie Sanders. La televisione non mente e le sue risposte prefabbricate apparivano per quello che erano: il frutto di un’accurata pianificazione. Lei è il candidato preparato, qualificato, affidabile, che si contrappone al dilettante Trump, che non ha mai avuto un incarico politico in vita sua e che, se lo avesse, probabilmente si annoierebbe a morte.

Una sceneggiatura forse abile ma difensiva. Se parlassimo di un campionato del mondo di scacchi diremmo che Hillary gioca per fare patta, contando su un errore dell’avversario quando la partita sembra inchiodata sul pareggio. E la storia degli scacchi, come quella della Prima guerra mondiale, ha dato spesso ragione a chi era più razionale e preciso nell’alzare barriere difensive.

Ci sono anni, però, in cui le fortificazioni più solide cadono in maniera apparentemente inspiegabile e il 2016 potrebbe essere uno di questi. Non è l’anno dell’esperienza, del buon senso, del rassicurante «usato sicuro».

È l’anno dei forconi, del caos, delle proposte impossibili e delle invettive infami. E quel che è peggio, tra gli americani e il fascismo di Trump c’è solo lei, una signora anziana e sovrappeso, logorata da una vita in politica, piena di buoni sentimenti ma anche figlia di tutti i compromessi degli ultimi 40 anni. Hillary Clinton, con il volto rugoso e segnato della politica contemporanea, baluardo contro la xenofobia e amica di Wall Street, un’eroina tragica, e per nulla innocente, della politica americana.