Tra le braccia di Obama (che su di lei torreggia), sul palco del Wells Fargo Center, con il pubblico in delirio dopo il travolgente discorso del presidente («thank you» e «yes we can», dicevano i cartelli bianco azzurri distribuiti tra la folla), e ancora più eccitato dall’apparizione inaspettata della nominee democratica, Hillary Clinton non poteva avere una vigilia migliore alla sua grande serata.
Dopo tre giorni di crescendo – spesso interessantissimo e a tratti molto emozionante, anche nei suoi conflitti – è venuta la volta di Hillary. Il suo discorso, con cui è terminata la Dnc, ieri notte, è avvenuto troppo tardi per la chiusura del nostro giornale.

Ma il messaggio dei democratici, articolato coerentemente in questi giorni, ed elevato dalle parole di Obama a una grande visione politica e morale dell’America («non siamo un popolo pavido e spaventato. E il nostro potere non viene da un cosiddetto salvatore che promette di restaurare l’ordine. Non siamo alla ricerca di un tiranno. Il nostro potere viene da quella dichiarazione immortale, messa su carta proprio qui a Filadelfia molti anni fa: È una realtà innegabile che gli uomini siano stato creati uguali tra loro; e che insieme il popolo forma un’unione più perfetta») era chiarissimo: la fotografia di un paese completamente diverso dalla disastrata distopia emersa da Cleveland.

L’America dei democratici, ha ricordato Obama, è ottimista, generosa, inclusiva, fedele ai suoi alleati, proiettata verso il futuro, aperta al diverso («il sogno americano non lo fermi con un muro»). L’unico candidato che crede nel futuro di questo paese e che sarà capace di affrontare i suoi problemi, ha affermato il presidente, è Hillary Clinton. «Per quattro anni ho potuto osservare dalla prima fila la sua intelligenza, la sua capacità di esercitare giudizio e la sua disciplina. Anche nel mezzo di una crisi ascolta, non perde la testa, tratta tutti con rispetto. E non importa quanto improbabile sia un obbiettivo; non importa quanti cerchino di sconfiggerla, lei non molla mai. È la Hillary che ammiro e conosco. Ed è per quello che non c’è mai stato nessuno -uomo o donna, e certamente non Bill o io – più qualificato di lei per essere presidente degli Stati Uniti».

Descrivendo gli obbiettivi raggiunti nei suoi otto anni alla Casa bianca, e anticipando che ci sono ancora molte cosa da fare, Obama ha posizionato Clinton in linea di continuità con la sua politica e soprattutto con i suoi valori. Andrà a Clinton il compito di rafforzare ed espandere Obamacare, di ottenere finalmente quella riforma sull’immigrazione che a lui è sfuggita, di spingere ancora di più sulla protezione dell’ambiente, di rilanciare sul controllo delle armi. Traguardi e/o work in progress obamiani che, nell’eventualità di una presidenza Trump, verrebbero completamente smantellati. Hillary, ha garantito Obama, sradichera’ l’Isis.
Se, in un certo senso, facendo aggressivamente campagna per lei, Obama restituisce a Hillary Clinton il favore che lei gli fece quattro anni fa, quando, dopo aver perso la nomination, si buttò al suo fianco contro Romney, per Obama una vittoria di Hillary è anche la garanzia che la sua eredità non vada in fumo.

Chiaramente rivolgendosi ai sostenitori di Sanders , Obama ha detto ancora: «Hillary è stata presente per noi tutti, anche se non sempre lo abbiamo notato – e se pensate che la nostra democrazia sia una cosa seria, non potete permettervi di stare a casa perché magari non siete allineati con lei su tutto. Dovete scendere nell’arena con lei. Perché la democrazia non è uno sport da spettatori. E l’America non è: «Sì lo farà lui». Ma: «Si, possiamo farlo», evocando così il yes we can che è stato il mantra delle sua prima elezione. I sanderiani erano parecchi nella hall mercoledì sera (per il discorso presidenziale sono tornati anche i delegati manifestanti) – alcuni più malleabili di tre giorni fa, altri sempre decisi a non mollare – o Bernie o niente. Obama lo hanno lasciato parlare, e anche il suo vice, Joe Biden (applauditissimo, specialmente dalle anziane signore) ha fatto il suo accorato discorso pro Hillary e anti Trump indisturbato dalle proteste.

Persino l’ex sindaco di New York, Michael Bloomberg, (per sua stessa definizione un pesce fuor d’acqua alla convention di un partito politico) ha portato a termine quasi senza problemi il suo appello, rivolto agli indipendenti. Bloomberg, che ha definito Trump «un demagogo pericoloso», dall’alto della sua fortuna (valutata almeno dieci volte quella del candidato repubblicano) ha invitato i presenti a votare Hillary non per lealtà al partito ma perché Trump «renderebbe più difficile la competizione tra piccole aziende, farebbe grossi danni alla nostra economia, metterebbe a rischio i risparmi di milioni di americani, farebbe salire il debito e la disoccupazione, eroderebbe la nostra influenza nel mondo e renderebbe le nostre comunità meno sicure».              

29desk1 USA PROTESTA TTP

Ma il pubblico del Wells Fargo Center non ha usato lo stesso riguardo a Leon Panetta – ex Ministro della difesa, ex direttore della Cia ed ex capo del gabinetto di Bill Clinton – il cui malaugurato discorso sulla sicurezza è stato quasi seppellito da urla e fischi. E non erano solo i sanderisti a strillare «No more wars», basta con le guerre. Un’ altra delle dimostrazioni organizzate dentro la hall (a base di cartelli No Tpp) era invece diretta a Tim Kaine, il senatore della Virginia che Hillary Clinton ha scelto come suo vice e che (a differenza di lei) è a favore della Trans-Pacific Partnership.

«Il partito è diviso. E la questione dei trattati commerciali, il Tpp in particolare, è uno dei punti su cui si sta discutendo di più«, mi diceva Jeff Engels, delegato dello Stato di Washington (uno di più pro-Sanders; 40 delegati erano fuori a manifestare, nel primo pomeriggio) e coordinatore per la West Coast della International Transport Workers’ Federation, il sindacato dei trasportatori internazionali. «Forse il partito si riunirebbe se Obama rinunciasse al Tpp. Ma non so se lo farà».

E quella divisione interna del partito sarà un problema che Hillary Clinton dovrà gestire – ben al di là del discorso con cui, ieri sera, ha ufficialmente accettato la nomination democratica – da qui a novembre.