«Penso che i nostri discendenti troveranno nelle opere di Hilde Domin il messaggio di un’epoca meravigliosamente creativa e spaventosamente distruttiva» scriveva Manès Sperber. È vero: nelle poesie di Hilde Domin scorre qualcosa di mai visto e di terribile, proprio come il secolo che la scrittrice ha attraversato: il nostro Novecento. Nata a Colonia nel 1909 Hilde morirà a Hildeberg nel 2006, insignita dai maggiori premi letterari. È, con Nelly Sachs una delle poetesse tedesche più importanti del Novecento. Alla fine è la parola è la sua seconda raccolta pubblicata in Italia (Del Vecchio Editore 2013, a cura di Paola Del Pozzo, traduzione e note di Ondina Granato, pp.416, euro 15). Mai visto e terribile. Questo è il mondo. «I miei piedi si meravigliavano/ che vicino a loro camminassero piedi/che non si meravigliavano/…». Un foglio, una maschera funeraria. «La mia mano/ cerca un appiglio e trova/ solo una rosa a sostegno». E la rosa è il simbolo della lingua, soprattutto quella tedesca.
Figlia di un avvocato ebreo Hilde nasce nel 1909 a Colonia, con il nome di Hilde Löwenstein. Studia a Colonia, a Heildeberg, a Berlino, a Bonn. Si forma con maestri come Karl Jaspers e Karl Mannheim. Poetessa, scrittrice, saggista, costretta giovanissima a emigrare sarà Roma con Erwin Walter Palm, archeologo e scrittore a sua volta, e lo sposerà. Per moltissimi è una vita d’esilio in quegli anni, ma è pur sempre vita, anzi, l’esilio è l’unico modo di sfuggire alla morte. Prima in Inghilterra e poi nella Repubblica Dominicana. È una perdita d’identità, è la voglia d’un altro nome: «ho cambiato il mio nome». La sua poesia comincia da lì, nel punto in cui il «nome diventa qualcosa di estraneo». Lei è «la straniera/ che parla la loro lingua». Lei «non ha casa in cui piangere». Alla Repubblica Dominicana deve dunque quel nome così simile a un suono di campana: quell’essere stranieri è condizione secolare, millenaria, e il nuovo nome te lo assegna il tempo, il mondo. «Noi siamo stranieri/ da isola/a isola./ Ma la mattina quando il mare ci arriva fino al letto/…». Non è un caso se la morte della madre, coincide con l’inizio della scrittura di Hilde. Nei versi si rivolge alla madre, la rivede «…con il foulard rosso/ come giacessi in una barca». Nel 1966, Hilde Domin scriverà a Nelly Sachs in occasione del suo settantacinquesimo compleanno, le scriverà della necessità di tornare al fondo della lingua materna. Senza questo passaggio nessun’altra lingua è rifugio: «che colui che viene scacciato abbia un rapporto particolarmente attento con la lingua,… che lui già da solo si faccia ’messaggero’, portatore delle lingue nella propria, e viceversa modellando la lingua madre sul mondo». E quando, dopo circa trent’anni, Hilde Domin tornerà in Germania avrà Solo una rosa a sostegno: quella rosa è la tua parola, la tua lingua. Alla parola ti appoggi quando tutto frana. La parola ti sostiene, ti riscalda. La parola, in sé, non ha colpe. È una via di salvezza.
La poetessa stessa ricorda come nacque quella poesia: lei era seduta sulla coperta di lana, dopo il ritorno «a casa». C’era una rosa, lì, sul comodino. E la rosa mutamente le diceva che c’era salvezza. «La poesia era fatta per cambiare la realtà, che era invivibile, e la cambiò». Nella lettera che Hilde spedì a Nelly Sachs per il suo settantacinquesimo compleanno si legge «Gìrati e di’ ai tuoi giovani lettori in Germania, che c’è bisogno di ognuno…nella parola tedesca».
Non di sole parole consiste una lingua, non di sole parole si nutre una poetica. Anzi. Scrive Hans Georg Gadamer: «I versi di Hilde Domin ci fanno capire in modo diverso ciò che davvero è la poesia. Chi con lei realizza cosa sia il ritorno, comprende contemporaneamente che la poesia è sempre un ritorno». Migratori del secolo. Dunque, scrive Hilde Domin: «Non scoraggiarsi/ ma tendere la mano/ al miracolo/ piano/ come a un uccello».