Di Hilary Mantel sono note la raffinata cultura storica e l’attenzione ai riverberi del passato sul presente, qualità che ha dimostrato sia nella corposa Trilogia dedicata alla dinastia Tudor – Wolf Hall, Anna Bolena e Lo specchio e la luce – sia nei tre volumi sulla Storia segreta della Rivoluzione. Quanto ai romanzi di ambientazione contemporanea, Al di là del nero, una commedia gotico-infernale, e l’incubo distopico ambientato nel mondo saudita, Otto mesi a Ghazzah Street, sembrano confermare l’inclinazione della scrittrice inglese per il lato oscuro del reale, unita alla consapevolezza che ogni violenza presente ha radici in un passato – negato, represso e perciò stesso ossessionante – dal quale i morti continuano a esercitare il loro potere fantasmatico sui vivi. Precedenti, questi, che assicurano l’iniziale disorientamento del lettore allo sfoglio del settimo romanzo di Mantel, Un esperimento d’amore, appena uscito da Fazi (traduzione di Giuseppina Oneto, pp. 256, €18,00). Ambientato tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Settanta, questo intreccio il cui carattere è fortemente autobiografico, rende immediatamente riconoscibili le ragazze cresciute nelle opposte sollecitazioni degli anni Sessanta: erano «donne vestite da bambine, atee che andavano a messa, vergini in via ufficiale e libertine de facto».

Figlia della classe operaria cattolica, la protagonista di nome Carmel McBain approda dal suo oscuro paesino del Lancashire a un college della London University, dove si ritrova insieme a due compagne di scuola, la rozza Karina e la ricca Julianne, a animare vicende che al tempo stesso riflettono episodi dell’infanzia e della adolescenza dell’autrice, mentre sottolineano questioni condivise da una intera generazione di ragazze.
Scritto in prima persona, il romanzo procede esplicitamente paragonandosi a un lavoro a maglia che, per ottenere i migliori risultati, va sottratto al frettoloso rischio di perdere il filo, ritrovandosi «a dover disfare e ricominciare da capo con la lana già usata e zeppa di arricciature». Il paragone con il lavoro a maglia non è casuale: Carmel e le sue coetanee vivono sulla soglia di una rivoluzione femminista dei cui esordi non sono consapevoli. Lo sguardo sul passato della autrice, per bocca della voce narrante, suggerisce già nel titolo un avvicinamento ai propri vissuti più scientifico che sentimentale, ciò che evidenzia come questo romanzo sia al tempo stesso un «esperimento» tanto narrativo quanto esistenziale, dove ogni sorta di sentimento amorevole – materno o filiale, di trasporto religioso, o di amicizia tra adolescenti, o pertinente piuttosto alla componente erotica di un legame – si riveli ingannevole, interessato, quanto meno, ambiguo.

«Le nostre autobiografie mi pare siano simili», commenta Carmel/Mantel; «Il resoconto che ci facciamo della nostra vita cambia di continuo. Prendiamo il filo e lo adoperiamo una volta, quindi lo riadoperiamo una seconda per creare qualcosa di più complesso, un indumento più utile, che corrisponde meglio alla moda e alla nostra fisionomia del momento». Ossessionata dalla grossa Karina, la figlia di immigrati che sua madre le impone come modello fin dalla prima infanzia, la fragile Carmel dimagrisce fino a farsi quasi trasparente mano a mano che Karina lievita in maniera esagerata.

Hilary Mantel ha scritto che non intendeva fare di Un esperimento d’amore una storia di anoressia, piuttosto un romanzo sull’appetito, «nei suoi tanti risvolti e aspetti, nelle sue perversioni e nella sua fragilità, nei suoi strani rifiuti e capovolgimenti». Diverse mancanze si contendono il campo: quella del denaro, che all’università porterà Carmel sull’orlo della morte per inedia; quella dell’affetto tra madre e figlia; quella dell’intesa tra ragazze e ragazzi; e, ancora, la mancanza di autostima e, soprattutto, di sorellanza, nelle giovani donne. Ancora prima di fallire, il femminismo «non è mai stato messo in pratica», riflette Carmel, e ancor più che constatare quanto l’esperienza insegni sulla vita, «potremmo scoprire che non abbiamo alcuna intenzione di costruircene una»: è questa la considerazione, più suggerita che esplicitata, capace di rendere tanto inquietante il romanzo di Hilary Mantel.