Il 29 maggio 1985 allo stadio Heysel di Bruxelles, prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, morirono 39 tifosi bianconeri. Morirono nel settore Z, schiacciati e soffocati dalla calca, sotto i colpi degli hooligans inglesi con l’evidente connivenza delle autorità e della polizia belghe, incapaci di prevedere e d’intervenire.

In “Heysel, le verità di una strage annunciata”, Francesco Caremani, giornalista e juventino, ricostruisce quanto accaduto in quelle drammatiche ore di 30 anni fa, ma soprattutto quanto accadde dopo, nei lunghi anni del processo che ha portato alla condanna di una dozzina circa di hooligans del Liverpool, per pene dai 4 ai 5 anni di reclusione.

Anche l’Uefa è stata dichiarata colpevole e obbligata a pagare i risarcimenti (da un minimo di 14 a un massimo di 400 milioni di vecchie lire) in quanto ritenuta responsabile per aver fatto giocare una partita così importante come l’atto conclusivo della Coppa dei Campioni in un impianto fatiscente, dove la gestione dell’ordine pubblico e della sicurezza da parte delle autorità locali fu, come accennato, del tutto deficitaria e inadeguata.

Edito nel 2003 dalla casa editrice Bradipolibri, nelle ultime settimane è stato riproposto in libreria e ne è stata prodotta una versione in inglese.

È l’unica opera ufficialmente riconosciuta dai parenti delle vittime dell’Heysel, cosa di cui Francesco Caremani va giustamente fiero, come ci ha ribadito di persona nel corso dell’intervista che ci ha concesso.

Qual è il tuo ricordo personale di quel giorno?

Avevo 15 anni e in realtà sarei dovuto essere anche io all’Heysel a incitare Platini e compagni. Non ci andai solo perché avevo un’insufficienza in latino e i miei non mi diedero il permesso. Così vidi la partita a casa di un mio amico. Lì l’anno prima avevamo visto la finale di Coppa delle Coppe che la Juve vinse con il Porto e quindi ci sembrava giusto non cambiare “sede”. Dell’incontro non ricordo assolutamente nulla, sebbene l’abbia visto. Rammento solo perfettamente che mia madre mi chiamò per dirmi che Roberto Lorentini, un nostro amico di famiglia, era ferito. In realtà era una bugia, perché il padre Otello, che era con lui, sapeva già della morte del figlio. Quando tornai a casa vidi delle persone che festeggiavano nel centro di Arezzo, la mia città. Ci rimasi molto male. Poi la mattina abbiamo scoperto la terribile verità sulla sorte del nostro amico. Roberto Lorentini era un medico e, nonostante si fosse salvato dopo la prima carica degli inglesi, ritornò indietro per soccorrere un bambino ferito, secondo alcune testimonianze Andrea Casula, la vittima più giovane di quella tragedia (aveva solo 11 anni, n.d.r.). Morì travolto da una seconda carica degli hooligans mentre era chinato a praticargli la respirazione artificiale.

Ci racconti un po’ la genesi del libro?

In realtà non avevo mai pensato di scrivere un libro sull’Heysel, sebbene conoscessi molto bene come ti ho detto Otello Lorentini, che poi è diventato il presidente dell’Associazione dei parenti delle vittime. Fu proprio lui a chiedermi di farlo. Fui colpito dalla luce nei suoi occhi, dalla sua voglia che si facesse finalmente chiarezza su come i familiari dei 39 tifosi morti quel maledetto 29 maggio fossero stati lasciati soli, dimenticati e soprattutto messi a tacere. Tanto per farti capire che cosa intendo, Otello in quegli anni è stato intervistato più dalle televisioni straniere che da quelle italiane, soprattutto nel decimo e nel ventesimo anniversario. Eppure lui è stato un testimone diretto di quanto accaduto nel settore Z e di quello che si è verificato dopo, in particolare durante il processo. Per questo io dico sempre che il mio è un libro di parte, la parte giusta.

Perché dici che i parenti delle vittime sono stati messi a tacere?

Perché era meglio non parlare di Heysel, era un argomento scomodo. La polemica tra il direttore della Gazzetta dello Sport, il compianto Candido Cannavò, e il presidente della Juventus sull’opportunità di restituire o meno la Coppa è esemplificativa. Per Boniperti quella coppa doveva rimanere nella bacheca del club. La posizione della Juve era che i giocatori non sapevano nulla di quanto accaduto nel settore Z prima di entrare in campo, eppure prima Stefano Tacconi nel 1995 e poi Paolo Rossi nel 2004 hanno fatto dichiarazioni che vanno in direzione contraria. Con l’avvento di Andrea Agnelli la società bianconera ha iniziato a fare qualcosa per ricordare l’Heysel. C’è una sezione sulla tragedia nel museo dello Stadium e nel 2010 è stata celebrata una messa in ricordo delle vittime. Anche il prossimo 29 maggio ci sarà una messa, ma credo che si dovrebbe fare molto di più.

Eppure le colpe di quanto accaduto non sono certo della Juventus…

Esatto, sono degli hooligans del Liverpool, delle autorità e della polizia belga e, non dimentichiamolo, dell’UEFA, come dimostrano le sentenze emesse dal tribunale di Bruxelles.

Chi ti ha aiutato di più a scrivere il libro?

Otello, che purtroppo dall’anno scorso non c’è più, è stato senza dubbio di un’importanza fondamentale, era il mio Omero che mi ha trascinato all’interno di quel dramma. Ma non vorrei dimenticare Daniel Vedovatto, avvocato italo-belga e all’epoca consulente dell’ambasciata italiana a Bruxelles, che nella causa si è battuto contro principi del foro assoldati dal governo belga, dall’Uefa e dagli hooligans inglesi e che mi ha dato una grossa mano per redigere l’appendice del libro dedicata agli atti processuali. Vedovatto è convinto che, visti i mezzi a disposizione all’epoca e nonostante precedenti giurisprudenziali non favorevoli, giustizia sia stata.

Che cosa stai facendo in queste settimane che precedono l’anniversario?

Molte presentazioni del libro un po’ in tutta Italia; in particolare, nella settimana dell’anniversario, in varie località del Piemonte ne ho anche 3-4 al giorno! Nelle scuole superiori incontro ragazzi che nel 1985 non erano nemmeno nati. È importante spiegare loro che cosa ha voluto dire quella tragedia e anche che cosa voglia dire andare allo stadio, vivere il momento della partita nella maniera più giusta e corretta possibile. Questa esperienza mi sta arricchendo molto e sono molto rincuorato dalla reazione dei ragazzi. In una scuola di Bologna hanno apprezzato così tanto l’incontro che mi hanno chiesto di tornare nel giro di un mese.

Come vivono il ricordo i tifosi della Juve?

In maniera non del tutto omogenea. Tanti ultrà criticano il gesto di aver alzato la coppa. C’è un gruppo che si chiama Nucleo1985 proprio in memoria dell’Heysel. Però altri la pensano in maniera differente e purtroppo spesso ci sono polemiche che io ritengo a dir poco sterili, come quando la rinata Associazione dei parenti delle vittime ha chiesto di ritirare (simbolicamente) la maglia numero 39 della Nazionale e tanti juventini hanno criticato questa iniziativa.

Quale lezione ha tratto il mondo del calcio in generale e il calcio italiano in particolare dalla tragedia dell’Heysel?

Il calcio italiano non ha imparato nulla. Nei nostri stadi si è continuato a morire e nemmeno le norme emergenziali hanno risolto un granché. La mancata memoria di quell’evento così luttuoso è la cartina di tornasole di un movimento malato, dove non c’è cultura sportiva, tutto è subordinato alle vittorie e le società continuano a essere ricattate dalla parte negativa del mondo ultrà, i «fucking idiot» per intendersi. Nonostante la richiesta di una memoria condivisa da parte dei parenti, in un’Italia spaccata tra antijuventini e juventini i cori a dileggio dei morti dell’Heysel ci sono sempre stati. Ci hanno messo 29 anni prima di sanzionare gli ultrà della Fiorentina che li facevano (cioè la società, n.d.r.), tanto per farti un esempio.

Invece in Inghilterra le cose sono cambiate…

Sì, è vero, ma non dopo l’Heysel. C’è voluta un’altra tragedia, quella dell’Hillsborough, quando 96 tifosi del Liverpool morirono schiacciati in una curva dello stadio dello Sheffield Wednesday, per far sì che anche loro imparassero la lezione.