«Hey!», la ribellione della diversità
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«Hey!», la ribellione della diversità

Mostra La pubblicazione trimestrale Hey! presenta alla Halle Saint-Pierre di Parigi una esposizione dedicata alla Art Brut
Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 14 maggio 2022

Il disegno è un gesto creatore fondamentale, riporta alla propria infanzia, ai primi scarabocchi, alla possibilità di sviluppo verso ulteriori forme di espressione artistica. La pubblicazione trimestrale Hey! presenta alla Halle Saint-Pierre di Parigi, specializzata in arte fuori dagli schemi, tutta la sorpresa, la curiosità, la meraviglia, l’attrazione, l’emozione e l’angoscia, senza la pretesa di una storia esaustiva di questo tipo di disegno. In un ambiente scuro, le opere illuminate dall’interno, brillano in tutta la loro singolare diversità. Nella mostra sono presenti sessanta artisti di vari paesi del mondo ai quali si aggiungono alcuni autori inediti di arte carceraria giapponese. La rassegna offre una larga visibilità a delle forme estetiche contemporanee nelle quali l’energia creatrice della contro-cultura è insieme proposta e contestazione. Nei vari disegni domina la pervasiva iconografia dei media e la surreale fantasmagoria del pop, senza trascurare l’eredità delle grandi tradizioni pittoriche e le novità della street art e del tatuaggio.

L’arte popolare contemporanea non ha frontiere ben definite, né rigidi steccati. È un territorio in progress in continua evoluzione. «L’art brut, l’arte singolare o ancora l’arte outsider non esiste che per se stessa» dice Anne Richard, fondatrice di Hey!, è un forte atto di protesta nei confronti delle suddivisioni burocratiche e degli atteggiamenti dogmatici. La rivista lascia la parola agli autodidatti, alle pratiche singolari attive ai margini, che ribaltano i valori consolidati del gusto, bello-brutto, buono-cattivo. Da quando il 15 settembre 2011 Hey! ha cominciato a collaborare con la Halle Saint-Pierre al 4 marzo 2012, il museo ha accolto circa sessantacinquemila visitatori. Dopo la chiusura per Covid, riapre quest’anno, «per se stessa e un po’ per noi perché ci fa riscoprire durante un anno ai piedi del Sacre Coeur che l’arte del disegno non si limita a un foglio di carta e una matita», ma può usare i più diversi materiali, lo smalto, il mallo di noce, l’inchiostro su tela, il minerale di piombo, l‘acrilico, la china, i rotoli di carta incollati su shari usati, i video.

L’avvenimento dell’anno è una mostra antologica nella luminosa e impressionante halle che risale al 1868. La componente retrospettiva riguarda le foglie d’albero seccate inviate dai combattenti dall’inferno delle trincee bagnate di sangue della prima guerra mondiale. Sulla foglia ingiallita sembra materializzarsi l’immagine del figlio lontano, a cui si rivolge la nostalgia del soldato che non sa se lo rivedrà. L’obiettivo dello spettatore di questa mostra così particolare non è tanto di guardare le opere, ma di abitarle, farle proprie, cercare di risalire alla immaginazione dell’artista. Particolarmente impressionante «Good’s Sorrow and Thread Salvation», è un disegno fatto con la matita, il feltro e la penna a sfera dal giapponese Takahiro Kitamura, arrestato nel 2004 e rinchiuso nel braccio della morte della prigione di Fukuoka, con suo padre, sua madre e il fratello più giovane, per aver ucciso quattro persone durante un furto. Tutti e quattro sono stati condannati a morte nel 2011. Impressionante è la meticolosa precisione e i dettagli di due occhi che guardano obliqui, sovrastati da palpebre rosse, dai quali sgorgano lacrime anch’esse rosse. Attraversato da un segno verticale, tutto percorso da tratti di matita che arrivano fino alla fronte chiara sulla quale è appeso un ragno. L’oscurità dei due lati del disegno rappresentano il buio della cella, ma anche la disperazione del pentimento che logora la psiche del condannato.

È la prima volta che queste opere escono dal Giappone, come quella di Kaoru Okashita condannato all’ergastolo nel 1998, tramutato poi in pena di morte, che è stata eseguita nella prigione di Tokio il 10 aprile 2008. In prigione scriveva dei poemi tanka che esprimevano il rimorso per il suo crimine, raccolti in un libro dalla fondazione Daidoji Sachiko che si batte per l’abolizione della pena capitale. Il disegno di Okashita, «Rose of the Judicial World», è un foglio chiaro con una guardia carceraria a sinistra, davanti alla quale un vaso quadrato trasparente con le radici di una pianta che sembrano voler strangolare una donna. «Radish 2010», di Kazutoshi Takahashi in inchiostro di china, matita e feltro, rappresenta una rapa bianca con le foglie verticali. Nel giugno 1988, una coppia di finanzieri è stata assassinata a Yokohama. Takahashi è arrestato dieci giorni più tardi. Confessa di aver rubato dodici milioni di yen ma i due uomini erano già morti quando è arrivato. È condannato a morte per furto. La pena è confermata dalla Corte suprema nel 2006. Detenuto nella prigione di Tokio, continua a dichiararsi innocente.

Sono particolarmente inquietanti le opere di artisti come gli americani Laurie Lipton, Ryan Travis Christian, Jason Walker, James Kusel, dell’inglese Mark Powell, del greco Diamantis Sotiropoulos, dello svizzero Morris Vogel, del coreano Hongmin Lee e dell’olandese Ron Roboxo. Ryan Travis Christian in «NightDog1» mostra la pluralità del disegno infantile in cui all’interno del muso di un cane dalle orecchie a banana ci sono altri due cani dagli occhi tondi, con due rettangoli come mascherine che incorniciano i nasi a patata, e sotto le guance spuntano le piccole lingue. Meno rassicurante l’apparizione mostruosa di Morris Vogel in «Deep States», dove un essere nero con aguzzi denti bianchi e capelli a istrice, le braccia spalancate verso l‘alto, si staglia su uno sfondo di strisce chiare urlando la sua assoluta disapprovazione.

Dai vivaci colori la composizione di Ron Roboxo «Aloha»: forse un richiamo al saluto delle Hawaii, alle isole che donano collane di fiori di benvenuto. Nel quadro si susseguono, si intersecano e si sovrappongono uno sull’altro volti noti, come quello di Marilyn, a volti sconosciuti, a scritte come Rock & Roll, Queen, Aloha Woaibi, parole senza senso, mani dalle grosse dita che afferrano un cranio, donne nude in atteggiamento lesbico, attrici da café chantant. Un patcwork dai colori verdi, rosso, giallo, rosa, azzurro.

Il greco Diamantis Sotiropoulos nel grande «Nemesis» mette in scena una donna dal vestito ocra, i seni scoperti, il viso con un occhio solo, che tiene in una mano una clessidra aggredita da entrambi i lati dai lunghi becchi di due corvi e nell’altra una lunga spada spezzata a metà. La figura è attorniata da una ghirlanda di fiori bianchi dalle foglie nere. In fondo a destra è adagiata una foca. Mark Powell, che appartiene alla corrente delle street art, predilige i volti solcati da profonde rughe di uomini e donne anziani. Anche se nel disegno seppia presente nella mostra, un formato verticale diviso da linee orizzontali, il volto dell’uomo non si vede, coperto da un cartello con scritto «older type of porto, sherry, champagne, glasses». Dalla camicia stropicciata affiora un bastone che tiene in mano. L’americana Laurie Lipton in «Happy», che in questo caso non è un «happy end», raffigura l’interno della Halle Saint-Pierre in bianco e nero, con tanti piccoli scheletri allineati sul pavimento, sulle scale, sui palchi.

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