Marzo 1871, stremata dalle conseguenze della guerra franco-prussiana che aveva visto la città cinta d’assedio e bombardata duramente per mesi, e insofferente alle misure durissime varate dal governo della Terza Repubblica che costringono alla fame e al freddo migliaia di persone, la popolazione di Parigi insorge dando vita alla Comune. Per due mesi e mezzo, stretti tra la repressione armata dei governativi, rifugiatisi a Versailles, e l’esercito prussiano, ancora accampato a nordest della città, sui boulevard della capitale francese si sperimenta una forma di autogoverno che pratica l’abolizione di ogni rapporto di potere segnato dal denaro, dalla classe e, almeno in parte, dal genere. Un’esperienza che, seppur sconfitta, segnerà per sempre le generazioni a venire.

Ed è proprio mentre la Comune annuncia la sua fine, durante la drammatica «settimana di sangue» che va dal 21 al 28 maggio del 1871, nei giorni convulsi dove le promesse di speranza cedono progressivamente il campo al sentimento della sconfitta, che Hervé Le Corre ha ambientato L’ombra del fuoco (e/o, pp. 492, euro 19, traduzione di Alberto Bracci Testasecca). Un romanzo che vede intrecciarsi la vita quotidiana della Parigi ribelle, aspettative e preoccupazioni di uomini e donne riuniti intorno alle barricate, ad un noir cupo, popolato di figure inquietanti che mette in scena la malvagità di alcuni mentre in gioco, sotto le bombe che cadono sulla città in rivolta, ci sono le sorti di tutti. Una conferma in più del valore dello scrittore di Bordeaux, già insegnante di liceo e militante della nuova sinistra, di cui nel nostro Paese sono usciti anche Nero è il mio cuore e Il perfezionista (entrambi Piemme), e Dopo la guerra (e/o), tra i protagonisti del noir europeo degli ultimi anni.

Perché ha scelto di ambientare «L’ombra del fuoco» proprio durante l’ultima settimana di vita della Comune, quando il sogno di una società diversa volge ormai al termine?
Volevo evocare l’idea della sconfitta, il modo in cui un sublime sogno politico fosse stato schiacciato. E questo per due ragioni. Da un lato perché attraversiamo una lunga fase di riflusso delle idee della sinistra che fa seguito ad una stagione di sconfitte che abbiamo patito collettivamente. Il capitalismo è sulla buona strada per vincere la «sua» lotta di classe. Ne consegue una sorta di malinconia rivoluzionaria, l’idea che malgrado il sentimento del disastro abbia sempre accompagnato i rivoluzionari, sostenendoli però piuttosto che farli rinunciare ai loro propositi – come analizzato da Daniel Bensaïd in Le pari melancolique (Fayard, 1997) – questa «scommessa» pascaliana sull’avvento di una rivoluzione si sia fatta ormai sempre più ardua. Era questo il mio stato d’animo quando ho iniziato a pensare al romanzo e al modo in cui avrei voluto raccontare le vicende della Comune. Volevo mostrare come i personaggi del libro – esattamente come hanno fatto i comunardi nella realtà – continuino a combattere anche di fronte ad una sconfitta fattasi ormai inevitabile.

Mentre l’altro aspetto di questa scelta con cosa aveva a che fare?
Con il fatto che la Comune di Parigi sia stata oggetto negli ambienti della sinistra rivoluzionaria di una sorta di mitizzazione, un’idealizzazione estrema che ha finito per trasformare chi si è battuto allora alla stregua di un’«immagine di Epinal». Ho sempre avversato il modo in cui i movimenti rivoluzionari erigono dei mausolei in cui giacciono «idee morte» che sono tanto più commemorate – e parlo anche della mia esperienza personale -, quanto più non sembra possibile andare avanti, inventare altro, cimentarsi davvero con le sfide del presente. Per questo i personaggi dei miei romanzi sono sempre malinconici, ossessionati dall’idea della loro fine o della loro sconfitta. Non hanno niente a che fare con il mito che si vorrebbe appiccicargli addosso.

Le vicende della Comune si offrivano in modo particolare ad essere raccontate in un romanzo?
Senza dubbio. In quella storia il romanzesco è ovunque: destini sconvolti, amori contrastati, sogni folli, speranze grandiose e irragionevoli, lotte, avventure, la tragedia della Storia. Volevo che tutto questo si incarnasse nei personaggi del libro, dare un volto, una densità a emozioni, sentimenti, attese. Giocare con la messa a fuoco: passare dal primo piano ad una panoramica, dall’intimo al collettivo, offrire una totale profondità di campo a quella grande avventura che fu la Comune.

Nella Parigi in rivolta, un fotografo di immagini porno e il criminale di cui si serve per procacciarsi con la violenza giovani modelle, si muovono nell’ombra annunciando un futuro in cui la rappresentazione della violenza farà impallidire i drammi a tinte forti che riempivano i teatri del cosiddetto «Boulevard du Crime». Il lato oscuro della città che combatte per la libertà?
Quegli spettacoli, molto popolari nella Parigi dell’epoca, mostravano un misto di gore e burlesque che il pubblico amava proprio per gli eccessi esibiti sul palco. Il fotografo e il rapitore di ragazzine sono invece predatori che approfittano del caos – ma anche della domanda commerciale, per così dire, per quanto riguarda quelle immagini – per soddisfare i loro istinti più vili. Appartengono a quella specie di persone che dai tempi di crisi, durante le guerre, nei momenti di forte instabilità e incertezza traggono nuove opportunità per esprimere tutta la propria violenza e pericolosità.

Già prima di questo romanzo, nel «Perfezionista» ha raccontato la Parigi popolare della fine del XIX secolo, la stagione che annunciava la Comune, mentre in «Dopo la guerra» si trattava del collaborazionismo con i nazisti e della Guerra d’Algeria. Qual è il rapporto tra noir e Storia nel suo lavoro?
Scrivere romanzi noir significa interrogarsi sulla violenza: criminale, sociale, simbolica. I periodi di guerra, dove la violenza si esprime senza ritegno, dove la morte dell’avversario non è più un crimine ma una sorta di dovere patriottico premiato con medaglie e riconoscimenti, sono perciò tra i momenti più adatti nei quali ambientare romanzi che intendano esprimere l’estrema oscurità del mondo, quando sprofonda nella notte della barbarie. Sono anche periodi in cui la neutralità e l’indifferenza sono più difficili da sostenere e dove puoi esortare i tuoi personaggi a prendere più chiaramente una posizione. Inoltre, la Comune, la Guerra d’Algeria, l’Occupazione nazista e la Shoah sono periodi storici la cui potente eco risuona ancora nella società francese. E sono vicende che continuano a interrogarmi sia come autore che come cittadino.

Giorni fa, presentando a France Inter il suo nuovo romanzo appena uscito in Francia – «Traverser la nuit» (Rivages) – ha letto un testo che parla di «Capital Terminator», spiegando quanto il capitale si sia rafforzato nella stagione della pandemia e come una battaglia decisiva si svolga sul terreno del linguaggio dove, per dirla con Bourdieu, «le parole fanno le cose». Una sfida che passa anche per i romanzi?
È una domanda che esigerebbe una risposta molto ampia, ma per sintetizzare posso dire che non credo molto all’efficacia dei romanzi per contrastare l’offensiva linguistica dei propagandisti neoliberali. Tutti i totalitarismi, e ora le società «democratiche» di mercato, hanno forgiato le loro neolingue, inventato slogan, distillato nel dibattito pubblico ciò che in Francia, nei ministeri come nei media, viene definito con il termine «elementi di linguaggio», ma che corrisponde in realtà a formule prestabilite utilizzate ad hoc. Per questo la battaglia sulla lingua è essenzialmente politica e deve essere combattuta passo dopo passo per evitare che venga estorto anche per questa via un consenso alle politiche perseguite oggi un po’ dappertutto in Europa.

Di cosa parla «Traverser la nuit»?
Di una donna martirizzata dal suo ex compagno, di un poliziotto stremato dal lavoro che indaga su una serie di omicidi di donne, di un killer alle prese con le sue pulsioni e con una madre violenta. Ci si muove tra le tenebre, tra povera gente, mentre in lontananza passano le manifestazioni di protesta degli ultimi anni.