Volendo dare un’idea approssimativa di Hermann Burger a chi non ne avesse mai sentito parlare, lo definirei un estremista del secondo Novecento, un magnifico pazzo, un eroe malato, un Manganelli svizzero. La sua fu una vita breve, molto spesso insabbiata nella depressione.
Nato nel 1942, finì per togliersi la vita nel 1989 con la classica (a quei tempi) overdose di sonniferi. Un anno prima, aveva pubblicato un Tractatus logico-suicidalis, 1046 aforismi alla maniera di Wittgenstein che non lasciavano dubbi sulle sue prossime intenzioni. Non gli mancarono plausi critici illustri, premi prestigiosi, e – nonostante il suo stile impervio e sconcertante – lettori ammirati. Non era decisamente quello che si chiama un accademico, ma insegnò, quando ne era in grado, letteratura tedesca al Politecnico di Zurigo. Non mi sembra senza significato il fatto che la sua tesi di dottorato fosse dedicata a Paul Celan. Dal grande lirico probabilmente apprese le straordinarie possibilità di invenzione verbale che appartengono alla lingua tedesca.

Come si può intuire, tradurre Burger in italiano non è un lavoro da principianti, e bisogna applaudire il talento e il coraggio di Anna Ruchat per questa nuova versione di un libro del 1986, L’illettore (L’orma editore, pp.159, euro 16,00), criticabile solo per il titolo scelto al posto dell’originale Blankenburg, che essendo un toponimo, andava riprodotto tale e quale. Non ci lamenteremo mai abbastanza per questo vizio dell’editoria italiana: vi immaginate il curatore di una mostra che cambia il titolo di un quadro di Paul Klee ? Tanto più che in un piccolo scritto auto-critico che leggiamo in appendice, lo stesso Burger ci racconta come tutto nasca da lì, dalla magia di quel nome di luogo letto su una cartolina: «Saluti da Blankenburg». Lo scrittore la riceve mentre è ricoverato in un istituto per la cura della depressione a Basilea, circondato da «preziosi esemplari di alberi etichettati» e «pazienti illustri». A scrivere la cartolina è una critica letteraria, una studiosa della sua opera.
Sono queste le scintille dell’indimenticabile incendio verbale doloso cui Burger si abbandona come a un’inaudita auto-terapia in forma di romanzo epistolare a senso unico. A scriverle è un uomo afflitto da uno dei più comuni sintomi della depressione, particolarmente grave e doloroso per chi ha fatto dei libri il senso stesso del suo stare al mondo: l’«illessia», ovvero la totale perdita di interesse per la parola scritta, e più in generale per la traduzione verbale del proprio stato d’animo («nel depresso», osserva Burger, «tutto è come un muro di cemento e lui non ha neanche la forza di scriverci sopra una bestemmia»). Ma la confessione di chi scrive queste lettere non ha nulla di oggettivo, non corrisponde insomma a nessun tentativo di verismo psicologico. Sprofondato nel suo male come se fosse prigioniero in una «cisterna», l’estensore di queste lettere si rivolge a una specie di istanza superiore, di incarnazione immaginaria del bene che ha perduto.
Come la Filosofia di Boezio, anche la sua consolatrice è una donna, la «Sovrana e signora» del castello di Blankenburg, con il suo grande parco di olmi e di abeti. Lettera espulsa dall’alfabeto della vita, l’illettore proietta tutto se stesso nel maniero dell’«eccelsa Lettora», vagheggiando i tesori della sua immensa biblioteca. Come Beatrice dal regno dei cieli veglia sui pericoli che il suo Dante affronta nella selva oscura, così questa nobile dama feudale intende soccorrere il suo fedele protetto, che «vegeta come fosse un torso, tagliato fuori com’è da ogni legame».
Ecco dunque che l’allegoria di Burger ha stabilito una polarità che è l’asse fondamentale del suo significato: la «cisterna» dell’illettore da una parte, e il «castello» dall’altra. Da una parte, un luogo che è palesemente una condizione morbosa; dall’altra, un specie di paradiso libresco, governato da una padrona che non solo esercita tutte le sue squisite prerogative di lettrice, ma è il simbolo stesso, soccorrevole ma intangibile, della letteratura universale («Io, signora di Blankenburg, sono L’idiota, sono Le affinità elettive, sono Lo Stechlin, sono la Recherche, sono Enrico il Verde, sono I sonetti a Orfeo, ho assorbito così profondamente queste pietre preziose dell’umano spirito che nessuno le potrebbe estirpare dalle mie viscere e dalle mie ghiandole»).
Come in altre opere di Burger, la polarità intuita dall’immaginazione verbale si rivela efficace nella misura in cui crea una tensione, una relazione di carattere salvifico tra un alto e un basso, tra uno stato di deiezione e uno di perfezione. Nessuna forma ereditata dal passato è congeniale allo scrittore svizzero come quella della finzione epistolare, con tutta la sua tracimante passionalità, il suo furore analitico, la sua perpetua ansia di un riconoscimento e di un soccorso da parte del destinatario (molte cose uno scrittore colto come Burger potrebbe avere appreso da un archetipo dell’età barocca come le famigerate e misteriose Lettere di una monaca portoghese). Il male che affligge l’illettore non va considerato solo come una specie di variabile professionale della depressione. Ovviamente, per un intellettuale i libri e il linguaggio, nel momento in cui vengono meno, rappresentano una privazione intollerabile.

Ma Burger va ben oltre la documentazione di un’esperienza puramente soggettiva. Bibbia alla mano, possiamo forse negare che tutto ciò che esiste esiste in virtù del potere demiurgico della parola? Ciò significa che ogni esperienza del mondo è un’esperienza che ha a che vedere con la lettura e l’immaginazione suscitata dalla lettura. L’illettore, di conseguenza, viene allontanato dai confini della vita, «restituito alla materia, polvere alla polvere, cenere alla cenere». A chi si potrebbe rivolgere concretamente questo derelitto? In altre parole, come rappresentare in modo fantasticamente efficace un concetto del tutto astratto come la Letteratura Universale? È questa la scommessa vinta da Burger in un parossismo di furia sperimentale.
Il castello di Blankenburg, la sua divina propietaria, il servo capace di impersonare alla perfezione i suoi illustri predecessori romanzeschi, il sagace segretario-bibliofilo, il medico e ovviamente la sterminata biblioteca con tutte le sue edizioni rarissime sono gli elementi di un’allegoria complessa e sorprendente, capace di conferire significato all’esistenza senza significato di chi l’ha concepita. Ed anche se il libro sembra raccontare un processo di guarigione, l’illettore non conquista mai un punto di vista oggettivo, un’organizzazione logica della sua vicenda.

La sua oltranza verbale è quella di chi parla dal fondo di una morte apparente più terrificante di ogni altra morte. Se ciò che leggeva gli permetteva di «catturare il vissuto», la malattia lo ha costretto a vivere «come se non vivesse». Alla maniera dei suppliziati di Artaud, parla dall’interno del rogo che lo arde. Basterebbe un solo passo in più, e il libro dell’illettore diventerebbe a sua volta illeggibile. È lo stesso Burger a avvertire se stesso del rischio, condensandolo in poche parole che valgono interi trattati sull’arte dello scrivere: «bisogna sapere quanto in là si può andare nello spingersi troppo in là».