«Il suo mondo di felicità erotica si muove nella suburbia in una società di falliti e disperati, di paranoici e impossibilitati come quella cara agli impressionisti tedeschi ma cantata con un ritmo e una figurazione cari ai surrealisti francesi; una società che Miller guardava con occhio realista tipicamente americano». Questa osservazione di Fernanda Pivano, nonostante il lapsus riguardante gli «impressionisti» anziché gli espressionisti tedeschi, può idealmente introdurre l’opera trasgressiva di Henry Miller (1891-1980) di cui Adelphi propone, nell’accurata traduzione di Katia Bagnoli, Giorni tranquilli a Clichy («Piccola Biblioteca», pp. 188, € 18,00). Il racconto fu composto nel 1940 a New York, subito dopo il soggiorno parigino dello scrittore, e rivisto nel ’56, anno in cui uscì in Francia, per i tipi dell’Olympia Press, in inglese (il progetto di copertina Adelphi riprende quello dell’edizione originale). Per vedere la luce negli Stati Uniti bisognerà attendere il 1965, quando terminò il travagliato processo per oscenità intentato a Tropico del Cancro che costituì un vero e proprio caso editoriale, diventando un best-seller internazionale, salutato enfaticamente da Orwell come il prodotto «dell’unico romanziere di valore che sia apparso in lingua inglese da parecchi anni a questa parte».
Giorni tranquilli a Clichy è ambientato a Parigi, la città della lost generation americana in cui Miller per quasi un decennio, quello degli anni trenta, visse come un clochard e che divenne lo scenario di molti suoi testi, dal succitato Tropico del Cancro al controverso Opus pistorum, redatto su commissione nel 1941, dove vengono descritti, con dovizia di particolari, tutti i gradi più rivoltanti dell’abiezione: dall’incesto allo stupro, dalla pedofilia ai rapporti contro natura, finanche con gli animali. Anche Giorni tranquilli a Clichy fu un lavoro nato su commissione: doveva trattarsi di un libro pornografico, pagato un dollaro a pagina, affidatogli da un miliardario dell’Oklahoma che non rimase soddisfatto del risultato e virò sugli scritti di Anaïs Nin, celebre amante di Miller. In questo racconto vengono narrate le vicissitudini di Joey, chiaro alter ego dello scrittore, scandite dagli incontri con varie prostitute, e la relazione che Carl intrattiene con Colette, adolescente che con i due amici condivide l’appartamento.
La sessualità, com’è tipico in Miller, ha un posto preponderante nell’economia del racconto, anche se qui risulta modulata, più che in altri topoi della sua sovrabbondante produzione, da un’attonita sorpresa per gli incontri prospettati e da una maggior distensione, anche se permangono le tipiche riflessioni esistenziali di indubbio taglio cinico. Lo stesso autore asserisce, a proposito di Carl, personaggio presente anche in altri libri di Miller: «La sua audacia (…) era generata dalla disperazione». Ed è proprio la disperazione a caratterizzare questo carosello di uomini e donne perennemente infoiati, in preda a un delirio alcolico che non conosce requie, trascinantisi alla stregua di automi, come osserva ancora la Pivano, in «camere squallide da pochi soldi o minuscoli appartamenti di periferia (…) nei quali il sesso sembra l’unica speranza, l’unica via di uscita dei diseredati». La stessa ville lumière che, come scrisse nel suo romanzo più famoso, «ti cresce dentro come un cancro, e cresce e cresce finché non ti ha divorato», vista attraverso alcuni splendidi scorci fotografici di Brassaï, definito dallo stesso Miller «l’occhio di Parigi», nel testo risulta riconoscibile solo a tratti.
È il paese di Bengodi dei bohémiens e dei depravati, in cui si passa da un bistrot malfamato a un appartamento anodino, relegando la sua magnificenza solo a qualche rapido, sbrigativo tratteggio: «Salimmo a zigzag su per la collina in direzione del Sacré Cœur. Ai piedi della cattedrale ci riposammo contemplando il mare di luci scintillanti. La notte esalta Parigi. L’illuminazione, più soffusa se la si vede dall’alto, attenua la crudeltà e lo squallore delle strade. Di notte, vista da Montmartre, Parigi è davvero magica; giace in una conca come un’enorme gemma scheggiata».
Nel libro figura un altro racconto scritto e riveduto da Miller nello stesso periodo, Mara-Marignan, di cui esiste anche una versione ridotta intitolata Berthe. La trama, dominata dall’incontro con una quasi irreale prostituta, sembra presentare più di un’analogia con la Nadja bretoniana, non a caso uno dei titoli elencati nei Libri della mia vita considerati fondamentali dallo scrittore (ma, rimanendo in ambito francese, non si può passare sotto silenzio il magistero di Cendrars, Céline e Rimbaud, sul quale egli scrisse Il tempo degli assassini, uno dei suoi saggi più avvincenti, scevro com’è di qualsiasi edulcorazione di carattere agiografico). E, ça va sans dire, quella linea «erotica» che da Sade e il suo acerrimo nemico Rétif de la Bretonne approda alle aporie di Bataille.
Guido Almansi, uno dei più convinti ammiratori di Miller, rilevava come «anche nelle sue opere migliori, la mistura di passi di alta letteratura e di zavorra è imbarazzante». Ma «l’unicità di ogni accoppiamento sessuale» che Almansi riscontra nell’opera del romanziere americano in realtà si riduce a una serie ininterrotta di coiti che, nonostante le infinite variazioni sul tema e le innumerevoli combinazioni descritte, appiattisce l’atto carnale all’espressione martoriata di «un mondo senza speranza», come osserva il protagonista di Tropico del Cancro. Il plot narrativo si dilata in meccanismi angusti e ripetitivi, il sesso è vissuto alla stregua di un’ossessione che abbisogna di una sequenza infinita di varianti mimeticamente descritte per poter assolvere al suo compito di programmatico scarto dalla norma. I rapporti tracciati da Miller hanno la stessa «bestialità» di quelli esibiti da Bacon nei suoi dipinti, con effetti allucinatòri che deformano le parti anatomiche rappresentate.
La prosa di Miller è contrassegnata da una carnalità endemica, vissuta «di pancia», che alterna momenti felici a frequenti cadute di gusto e stile. Fu molto ammirata da Lawrence Durrell e Norman Mailer e, stranamente, anche da un critico algido come Mario Praz, che osservò al riguardo: «Il mondo descritto dal Miller è davvero la carcassa, la carogna della civiltà in sfacelo, rappresentata dall’orrore delle sue città squallide e tentacolari, e dalla vuotaggine della vita meccanizzata». Nell’umorismo triviale di Miller, nei suoi inarrestabili flussi di coscienza, nella sua prosa brutale che si aggrappa al linguaggio parlato arrivando a influenzare in maniera decisiva Kerouac e la beat generation, spesso si nasconde una serie di criptocitazioni. Si pensi ad esempio, nel racconto che dà il titolo a questo libro, all’episodio dell’incontro tra la poetessa surrealista e i due protagonisti. Oltre alla tecnica dell’écriture automatique, richiamata sarcasticamente dal fatto di scrivere versi con il rossetto sulle pareti del bagno, non si può non attribuire alla rivoltella che la poetessa nasconde nella borsetta un preciso riferimento a quanto teorizzato da Breton, a sua volta memore di Jarry e Vaché, nel Secondo manifesto del surrealismo: «L’azione surrealista più semplice consiste, rivoltella in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso, finché si può, tra la folla».
Tuttavia il medesimo Almansi osserverà come quella di Miller sia «una scrittura realistica che arriva alla surrealtà della visione». Ma il movente è sempre quello della vita vissuta, polemicamente contrapposta alle derive della società consumistica americana, perbenista e intransigente. Scrisse Miller: «Se qualcosa merita il nome di “osceno” è proprio questo confronto obliquo e furtivo con i misteri, questo camminare sull’orlo dell’abisso godendo l’estasi della vertigine senza però cedere al fascino dell’ignoto».