Nel programma sovrabbondante del «Cinema Ritrovato», fonte di desideri solo in parte accessibili al comune mortale che è lo spettatore per quanto onnivoro, cercheremo anche quest’anno alcuni fili di percorso. Più che mai tutte le parti del programma meritano una visione. Di solito privilegiamo nelle scelte sezioni più marginali rispetto ad altre messe in evidenza dalle strategie di programma: e non certo per gusto esoterico ma perché il poco noto, il raro è nel cinema il vero volto segreto della popolarità. Orbene, quest’anno ci è difficile dirci di qualche parte del programma «ne so già abbastanza, mi concentro sul resto». Esempio emblematico l’omaggio a Jean Gabin, che è in qualche modo, anche iconicamente, al centro della programmazione. Il curatore Eduard Waintrop ha scelto, nell’estesa filmografia dell’attore che (lo diceva lo scomparso direttore del festival Peter Von Bagh) è il volto della Francia per eccellenza, una decina di film, quasi tutti in copie pellicola, che anche laddove già conosciuti meritano un’ulteriore visione fonte di nuove scoperte. Per esempio En cas de malheur, uscito in Italia come La ragazza del peccato (con riferimento alla coprotagonista Brigitte Bardot), film che a ogni visione ci sembra più bello. Peccato non vi sia anche il coevo Gabin di Claude Autant-Lara, La traversata di Parigi, altro film che persino ai prima ostili Cahiers du cinéma (e a Truffaut che aveva maltrattato il regista e gli sceneggiatori Aurenche e Bost) non potè non apparire convincente. Oggi che in particolare Jacques Lourcelles e Paul Vecchiali hanno posto Autant-Lara tra i massimi cineasti francesi (posizione da cui nessuno sbandamento politicamente scorretto dell’uomo può rimuoverlo, neanche nella Francia in cui si è fatto morire male Jean-Claude Brisseau e dove gli odierni Cahiers lanciano fatwe verso Kechiche, facendo a gara con gli americani che liquidano Polanski, Toback e persino le sorelle Gish per aver interpretato The Birth of a Nation) oggi attendiamo con ansia di rivedere a Bologna questo film di lacerante bellezza, che come tutti i grandi film è tale anche negli apparenti difetti, quale l’antipatia borghese del personaggio Gabin. E il finale in cui ci si perde nella banlieu con canti islamici fuori campo…

LA RASSEGNA Gabin segue altre tracce simenoniane e maigretiane dell’attore, e vi aggiunge un controverso Carné, un Clément con Isa Miranda (attrice per noi tra le più «mirande»), e un film francese di un altro regista sempre più grande, Georg Wilhelm Pabst.
Sarà bello incrociare le visioni di questo nucleo francese del programma (esteso a un omaggio alla splendente Musidora, icona surrealista ma anche regista e reincarnazione della Cinémathèque di Langlois, nonché a un omaggio a Georges Franju curato con la consueta intelligenza da Bernard Eisenschitz) con i coevi film italiani di Eduardo De Filippo. Francamente qui ci sorprende l’omissione di una tarda regia, Spara forte… più forte… non capisco, film senza cui è difficile farsi un’idea precisa del cineasta Eduardo, molto più inquieto di come un certo canone di napoletanitudine voglia rappresentarlo, tuttavia di film belli da scoprire ce ne saranno, anche coi fratelli Peppino e Titina, oppure il fuori-canone Ragazze da marito.
Altrettanto interessante sarà intrecciare alcuni film emblematici del secondo dopoguerra italiano e francese col programma tedesco curato da Olaf Möller, che è quasi un flashback della sua retrospettiva per Locarno di tre anni fa: lì si riscoprì in modo originale il cinema della Repubblica Federale Tedesca, qui se ne presentano gli Ur-testi, i film di prima della nascita della RFT, ma sempre nel territorio occidentale… ecco perché non si coglie l’occasione di farci rivedere, come non ci dispiacerebbe, Germania anno zero di Rossellini, che fu girato all’Est. Il programma del critico di Colonia, che comprende anche un film sulla sua città, ritrova le prime tracce delle espiazioni delle colpe tedesche attraverso il cinema, ben prima di Willy Brandt, cui sappiamo che il curatore preferisce il più jekyll-hydiano Adenauer (che era pure di Colonia). Inutile aggiungerlo, ma se si ama il cinema intrecciato alla vita anche nei suoi aspetti più bui, la rassegna tedesca di Bologna è imperdibile. E anche qui il curatore ci tiene a presentare tutti i film in copie 35mm, convinto come noi che tra i tanti meriti del digitale non ci può essere quello della fisicità, di cui molto cinema ha ontologicamente bisogno.

E GIACCHE’ siamo ai rapporti liberi del cinema con la dimensione politica, come non segnalare qui due altre rassegne del festival? Intendiamo l’omaggio al Fespaco nato in parallelo col glorioso Burkina Faso di Thomas Sankara, e nel cui programma si vedranno alcuni grandissimi film africani; nonché alla sezione dedicata agli anni 60 della Corea del Sud, uno dei momenti più alti di una delle cinematografie asiatiche più affascinanti (seconda forse solo alle Filippine). E poi va segnalata quella storia del cinema infinita che Mariann Lewinsky ha messo in atto da anni a Cinema Ritrovato: il «cento anni fa» giungerà ovviamente quest’anno al 1919, da cui ci proverranno, tra gli altri, due capolavori di Mauritz Stiller, uno di Jakov Protazanov, uno di Augusto Genina, e infine il primo lungometraggio di Carl Theodor Dreyer, Praesidenten, che chi ama davvero Dreyer considera già massimo capolavoro. Il cinema di Dreyer nasce grande eppur cresce…
E arriviamo ai film americani in programma nel modo più giusto, non da cinefili orecchianti, ma con la capacità di scoprire nel cinema americano la vera forza. Il programma contiene anche scoperte di «margini» (il noir di Felix A. Feist), o la seconda tappa della retrospettiva Fox curata da Dave Kehr (di cui qui scrive Giuliana Muscio).
Contiene, in qualche modo al centro per il fatto di offrire un gruppo di film di massimo godimento, le copie 35mm d’epoca, che saranno proiettate sullo schermo gigantesco del Cinema Arlecchino, della pluriennale rassegna dedicata al colore, e dove già negli anni passati godemmo meraviglie. Quest’anno, oltre al fondante (ma digitalizzato) Becky Sharp di Mamoulian, e al Peckinpah più mitizzato (The Wild Bunch) e al primo James Bond, segnaliamo in particolare tre eccellenze: Under Capricorn, uno degli Hitchcock più affascinanti, e poi uno dei Minnelli più emozionanti, Gigi, film di memoria capace di filtrare Colette con Proust, e Indiscreet del recentemente scomparso Stanley Donen, che è uno dei film di più puro divertimento mai realizzati.
Ma forse il vertice del festival è l’omaggio a Henry King, tra i massimi cineasti che ancora una volta rivelò la rivista Présence du cinéma (da cui il citato Lourcelles proseguì la scoperta con un saggio e le voci del suo Dizionario). Henry King è con William A. Wellman il cineasta americano che smentisce una presunta americanità del cinema estranea alle pulsioni autoriali. Come se l’America non fosse il continente di Poe, Melville e Pound! I film di Henry King non sono meno puri di quelli di Robert Bresson. E devo dire che sorprende che l’intelligente curatore iraniano Ehsan Khoshbakht, forse più in sintonia l’anno scorso con John M. Stahl, ci privi nella selezione di alcuni dei King più sublimi, come Bernadette, o Le nevi del Kilimanjaro o L’amore è una cosa meravigliosa come di tutto l’ultimo periodo del regista (La mia terra, Adorabile infedele, Tenera è la notte), forse «imperfetto» (quanto il tardo McCarey Storia cinese), ma per chi ama King davvero irrinunciabile, e che più che bene si sarebbe intrecciato con la rassegna Fox, che è la casa in cui il regista lavorò lungamente. Si dirà che qualche film si era già visto negli anni scorsi (e altri magari a Pordenone, come lo stupendo The Woman Disputed). Certo non sarà stato facile scegliere in una filmografia con tante punte e così estesa, e la decina prescelta è comunque appassionante (soprattutto sul versante western). Ma King è un re ancora più potente.