Al Teatro Comunale di Bologna è andata in scena l’opera più grande di Giuseppe Verdi: Don Carlos. Grande nel senso che si tratta di un grand opéra composto per l’Opéra di Parigi. Grande perché il cantiere della sua stesura resta aperto dal 1865 al 1886, periodo in cui Verdi apre e chiude altri cantieri (Simon Boccanegra, La forza del destino, Aida, Requiem, Otello), dando vita a un work in progress assai permeabile. Grande perché si tratta della sua partitura più estesa, una vera e propria opera-mondo che conta quattro trame sovrapposte: quella storica, quella politica, quella religiosa, quella sentimentale.

Grande perché esorbita da ogni classificazione, chiaroscurata come una tela di El Greco, allo stesso tempo realistica ed espressionistica. Di questa grandezza chiaroscurale resta poco o niente nell’allestimento di Henning Brockhaus, che cura regia e luci (insieme a Daniele Naldi), con le scene di Nicola Rubertelli, i costumi di Giancarlo Colis, le coreografie di Valentina Escobar: il chiaroscuro fisico (giorno vs notte), quello ontologico (realismo della vicenda storica vs fantastico dell’apparizione di Carlo V), quello ideologico (oscurantismo vs illuminismo) vengono cancellati da un miscuglio incomprensibile di scene astratte, costumi anni ‘30, movimenti degli attori lasciati al caso e su tutto il Grande Inquisitore che galleggia su un trono semovente che rende grottesche diverse scene e l’idea stessa di attribuire a lui la responsabilità di tutta la vicenda.

Della grandezza chiaroscurale della musica (modo maggiore vs modo minore, tonalità netta vs sospensione tonale), invece, resta molto grazie alla direzione del talentuoso Michele Mariotti, sebbene in proporzioni poco comprensibili: che egli sia in grado di scavare nel labirinto armonico e dinamico di una partitura, gestendone miracolosamente i volumi, lo abbiamo visto pochi mesi fa con l’Orphée et Euridice di Gluck alla Scala, ma qui vediamo solo lo sforzo di Verdi per superare se stesso e i moduli ormai vetusti del melodramma romantico oscurato da una direzione che subordina, talvolta fino a svilirla, la musica al canto.

Anche quando il canto è quello imponente di solisti come Roberto Aronica (Don Carlo), Dmitry Beloselskiy (Filippo II), Luiz-Ottavio Faria (Grande Inquisitore), Luca Salsi (Rodrigo) e Luca Tittoto (Frate), che vantano tutti voci timbrate e voluminose, ma peccano nel cantare sempre spingendo e forzando, badando più a primeggiare che a tratteggiare i loro personaggi: così Filippo II perde i tratti senili e nevrotici attribuitigli da Verdi, Don Carlo quelli della baldanza mista a velleità della giovinezza e Rodrigo ha un’esitazione solo in punto di morte. Più credibili e sfumate Veronica Simeoni (Eboli) e Maria José Siri (Elisabetta), vera e propria signora della scena, in grado di dominarla facendo meno di tutti gli altri ed emulando, nel lunghissimo acuto finale, la Caballé diretta da Molinari Pradelli nel 1972 al Metropolitan di New York.