Odore di polvere da sparo e profumi di alcol sul fondo di un bicchiere. Anche se svanivano nell’aria da lì a poco, restavano impressi nella memoria di chi, in qualche parte del mondo, aveva conosciuto Ernest Hemingway. Generose di particolari a proposito di Africa, America e Cuba, le biografie di Ernest, quando rivolgono la loro attenzione all’Italia, vanno poco oltre gli scenari della Grande Guerra e le scenografie veneziane. C’è, invece, un punto di terraferma che appartiene alla Laguna e possiede una laguna sua; un piccolo punto dal nome breve, Caorle, dove Hemingway mischiò all’odore della polvere da sparo e al profumo dell’alcol il sapore selvatico dell’anguilla, l’alito salato del mare, la fragranza dolce dei canneti. Dalla miscela di questi ingredienti nacque Di là dal fiume tra gli alberi, romanzo pubblicato in America nel 1950, arrivato da noi nel 1965. Lo scrittore tornò a Caorle più volte tra il ’55 e il ’57, ospite, insieme alla moglie Mary, del barone Raimondo Nanuk Franchetti, discendente di quel Giorgio cui si deve il restauro della Ca’ d’Oro. La villa padronale di borgo di San Gaetano accoglieva gli invitati. Ma la casa di Valle Grande, campo base per le battute di caccia, era riservata ai soli uomini.

Si prendevano cura di Ernest la governante Nina Botoss, che metteva in tavola bigoli in salsa e anguilla ai ferri, e l’oste Domenico Ghirardini nella sua trattoria Da Nico di San Gaetano, ricavata dentro il casòn di famiglia. Una bottiglia di Amarone o di Valpolicella accompagnava il risotto ai fegatini e rane, l’anatra arrosto, il pesce. I clienti guardavano con un misto di timore e rispetto quel tizio dall’accento straniero, che si portava sempre dietro una scorta di fogli bianchi e di whisky. Proprio a San Gaetano sono state ritrovate le tracce di un villaggio che prese forma tra il Tredicesimo e l’Ottavo secolo avanti Cristo, e da cui iniziò la lunga storia di Caorle: Portus Reatinum in epoca romana; rifugio per le popolazioni dell’entroterra incalzate dalle invasioni barbariche nel Quinto e Sesto secolo; possedimento dell’Impero romano d’Oriente e poi satellite della Serenissima; luogo di paludi e malaria dal Medioevo, bonificato del tutto solo agli inizi del ’900; paese fantasma durante il primo conflitto mondiale, quando, sotto l’occupazione austriaca, i suoi abitanti divennero profughi nel Meridione d’Italia; pianeta di povertà negli anni della Seconda Guerra Mondiale e in quelli immediatamente successivi. Poi il boom economico e del turismo: alberghi, ristoranti, spiagge scandite da stabilimenti balneari, i bar con i dehors sul Rio Terrà (canale sepolto), il cui nome ricorda la Caorle disegnata dai canali urbani, e che tale rimase fino al 1822, anno di inizio dei lavori di interramento per allargare gli spazi e allontanare l’incubo della malaria.

Gli odori e i profumi di Hemingway non aleggiano su Rio Terrà: troppo passeggio mondano, troppo intensi i sentori di creme solari, troppo scintillanti le vetrine. Ciò senza nulla togliere alla bellezza di una cittadina che vanta un centro storico fatto di case color pastello vegliate dal duomo risalente al 1038 e dal suo campanile cilindrico; che si apre ogni anno, in giugno, al festival di poesia Flussi diVersi; che gioca a nascondersi dentro vicoli e slarghi minuscoli; che al termine del Lungomare Petronio, con i blocchi della Scogliera divenuti a partire dagli anni ’80 del secolo passato sculture firmate da artisti internazionali, offre la devozione al miracolo del santuario della Madonna dell’Angelo. Stando alle leggenda, in epoca Medioevale i pescatori videro galleggiare sul mare una statua della Vergine seduta su un trono di pietra. Portata a riva la statua, la collocarono in un edificio religioso, più volte danneggiato in seguito dalle inondazioni e ricostruito ex novo nel 1571. L’immagine antica bruciò nell’incendio del 1923, sostituita dall’opera di un artigiano della Val Gardena.

Gli odori e i profumi di Hemingway si avvertono sempre più acuti man mano che ci si avvicina al porticciolo del Canale Saetta, regno degli ultimi pescatori. Dai uno dei suoi moli, ogni giorno, salpa la motonave Arcobaleno, al timone Mario Rossetti detto “Musigna”’, “cicatrice”. Poco importa se la cicatrice era il padre a portarla. Mario, a Caorle, lo chiamano tutti così. Capelli lunghi e bianchi, fisico robusto, tatuaggi sparsi, inossidabile fede nei valori del comunismo con la C maiuscola, Rossetti si guadagna il pane facendo spola turistica sul Canale. Ma l’impressione, e poi la certezza, è che lo faccia soprattutto per sé, come se ognuna delle miglia consumate lentamente sull’acqua richiamasse in lui il ricordo di una vita collettiva sbriciolata dalla macchina del turismo. Come se quel tragitto mai gli venisse a noia, e anzi rendesse ogni volta più nitida la memoria. L’Arcobaleno inizia il suo viaggio, e subito Caorle si dissolve. Le erbe alte, i canneti di falasco in cui si insinuano i canaletti chiamati ghebi, sono avvolti da un silenzio inaspettato. La nave scivola dentro un paesaggio che nella sua mancanza di spettacolarità lascia spazio all’immaginazione. I colori virano al seppia o a un bianco e nero sbiaditi dal tempo. I due ponti apribili, Saetta e “delle bilance”, le barche e le chiatte ormeggiate oppure pigramente al lavoro, compongono le pagine di un album fotografico in cui, senza timore di azzardo, incontreresti Ernest infagottato nel soprabito di tela cerata dei cacciatori. Musigna fa sentire la sua voce: «Ecco i casòn». Dietro il paravento delle vegetazione, spuntano i tetti a piramide delle vecchie case dei pescatori, pareti e coperture di canne. Davanti, un attracco per la barca e le reti stese all’aria aperta: il cogollo, la tratta da canal, il traturo da fraima, la marotta per contenere le anguille. Intorno al casòn, ancora oggi, il nulla. Dentro, un ambiente spartano, poche cose intorno al fogher, il fuoco. Dove si vedono i camini sul tetto, spiega Musigna, vuol dire che sono stati fatti lavori di ammodernamento. Dove il camino non c’è, il casòn è rimasto uguale a quando lo hanno tirato su.

Si riparte per approdare al villaggio dei pescatori. All’interno di un casòn, lecito il sospetto che sia quello del Musigna, sono appese decine di foto d’epoca con un solo protagonista: Hemingway a caccia, a tavola, in barca, accanto al barone Franchetti. C’è anche lui, Rossetti Mario, ritratto nelle vesti di pensoso uomo di lettere, occhiali in una mano. Giusto, perché Rossetti Mario, anzi Musigna, un libro lo ha scritto. Si intitola Storia lagunare di un gabbiano e di un pescatore, e inizia così: «Aspettavo l’8 settembre e che il parroco desse la benedizione ai pescatori, alle loro famiglie, alle loro reti. Dopo quella data tutti i pescatori si trasferivano dal mare alla laguna; alcuni partivano con le loro donne perché nei periodi di chiaro di luna non si poteva pescare. I pescatori andavano a raccogliere la canna palustre, la portavano al casone dove le donne la pulivano dalle foglie e creavano le arrele (telai, ndr), che venivano poi adoperate dai muratori per creare i contro soffitti, dai contadini per l’allevamento dei cavalieri, i bachi da seta, e dai pescatori per chiudere la palude». Un viaggio su carta parallelo a quello dell’Arcobaleno, e che forse, senza l’Arcobaleno, non sarebbe mai iniziato. Musigna versa per tutti “il caffè del pescatore”. Ernest gli sorride da una foto. Meglio un bicchiere di Amarone, my friend.