Gli ultimi due giorni di Filmmaker hanno ospitato, nella sezione Fuori Formato, due programmi speciali, denominati Costellazioni, della filmmaker tedesca Helga Fanderl. Lavorando esclusivamente in Super8 dall’inizio degli anni ’90, Helga Fanderl ha archiviato nel corso del tempo circa 700 piccoli film, a colori e in bianco e nero, che utilizza come spettro cromatico per una tavolozza di corrispondenze quasi baudleriane. Costellazioni dunque è una sorta di raggruppamento rapsodico composto di una ventina di frammenti visivi di varia lunghezza, ma la massima estensione – tirannia della bobina – è di circa 3 minuti e 20 secondi, e con i rumori meccanici del proiettore 16mm come unica colonna sonora, dove la vera sfida giace nel coraggio di filmare la naturale poesia di un momento e nel condensare il tutto in una scheggia visiva.

Foglie spazzate dal vento, stormi di uccelli nel cielo di Berlino, mani esperte che confezionano tortelloni, pesci che nuotano nei colori accesi di uno stagno, per Helga Fanderl l’ordinamento di una costellazione è una sorta di processo interiore «Oramai ho acquisito una lunga esperienza nel fare programmi differenti per ogni occasione e capita che singoli film si trovano in contesti molto diversi. Il mio processo è in primo luogo mentale: mi piace molto scrivere i titoli dei miei film e pensare a quali mi piacerebbe scegliere. Convivo per un certo periodo con questa idea, poi li assemblo e quando arriva il momento della proiezione, vedo subito se quello che ho immaginato funziona rispetto ai colori, ai ritmi, alle sensazioni. Quando non sono convinta e capisco cosa non mi piace cambio e non scelgo sempre fra tutto il mio archivio, tanti film li amo particolarmente solo per un certo periodo. Questo è il bello dell’essere la mia stessa programmatrice e curatrice».

Allieva di Peter Kubelka, che la paragona all’eterea Emily Dickinson, Helga Fanderl condivide con lui l’intensità e la devozione quasi religiosa nella conoscenza e nello studio della pellicola ma è lontana dall’estetica rigida e dalla precisione quasi geometrica del suo maestro. Affascinata dalla de-naturizzazione della natura, i suoi animali sono spesso scrutati nella cattività castratrice di una voliera o di uno zoo «Mi affascinano molto gli animali rinchiusi in un piccolo spazio ma ancora  abituati al ricordo di uno spazio immenso, mi piace osservare la loro reazione. Nel film sul leopardo che gira continuamente su se stesso, credo che la ripetizione abbia tutte le qualità della bellezza: il movimento delle macchie del suo mantello, la meccanica naturale delle zampe, la sua solitudine». Per Fanderl la poesia è insita in tutto quello che ha un ritmo proprio, interviene sul momento con cambi di andatura e stacchi di montaggio in tempo reale, abbattendo così le barriere fra creazione e post-produzione «Quando giro sono in uno stato di trance e a volte non mi accorgo nemmeno che la cassetta è finita. C’è sempre la possibilità di non farcela o la paura di non avere sufficiente pellicola ma è un pericolo che amo correre. Io non vedo mai sul momento quello che giro, ogni film è nella mia testa, nel corpo, nella mia mano e questo genera uno stato di una concentrazione veramente intenso. Anche se ci sono degli errori o degli aggiustamenti sul campo, penso che se il mio lavoro è vivo e giusto, l’errore sia in grado di renderlo più interessante».

Lo sguardo dell’artista, accompagnato dalla cinepresa che tiene in borsa quasi sempre, pure in questi due giorni meneghini, conosce la pazienza e l’attesa della magia «A volte mi soffermo per ore a osservare ma sono molto paziente quando mi affascina qualcosa. Non posso e non voglio creare una situazione, per questo lavoro poco con gli essere umani, e sono sempre pronta a correre il pericolo di non riuscire a filmare qualcosa». La necessità di un incontro con il reale è il vero motore del suo cinema-mondo, dove mai nulla è programmato ma figlio di un appuntamento con il Caso, in grado di creare rime poetiche, la Fanderl non a caso proviene da studi di letteratura e lingua romanza, e ritmi musicali con un semplice cambio di prospettiva per mostrarci tutto quello che la prosa della vita non è più capace di farci vedere.