Alla fine dell’incontro taglierà corto : «Devo andare. Mio marito m’aspetta in macchina per riaccompagnarmi ». E aggiunge, con la consueta autoironia: «Avrò pure pretese di femminista e missionaria del mondo-donna : ma, alla fine, è sempre mio marito che comanda». E alla sorpresa del maschio-padrone in attesa – il regista Taylor Hackford, da lei sposato nel 1977 – se ne aggiunge un’altra: Checco Zalone, che appare di colpo per omaggiarla, dopo l’inaspettata intesa sul set del clip La vacinada, suo terzo titolo italiano dopo il Caligula (1979) di Tinto Brass e The Leisure Seeker (2017) di Paolo Virzì.

Al Bif&st di Felice Laudadio, Helen Mirren è stata nel 2021 di nuovo regina: d’eleganza e humor. Indomita bellezza di 76 anni, orecchini zingareschi, completo e sandali bianchi, rossa la maglietta e la fascia attorno alla nuvola bianca di capelli, ha Virzì per comprimario nelle risposte su The Leisure Seeker, ripresentato a Bari in un’ottima copia in originale con sottotitoli, dove l’attrice britannica sfolgora accanto a Donald Sutherland. Assediata da domande sul suo cinema e gli innumerevoli trofei, tra cui la Coppa Volpi a Venezia e l’Oscar per The Queen (2006) di Stephen Frears o i due premi per l’interpretazione a Cannes, per Cal (1984) e La pazzia del Re Giorgio (1995), si divide tra le note al vetriolo sui diritti delle donne (rinverdendo le zampate antisessiste contro il teleconduttore Parkinson) e le dichiarazioni d’amore per la «sua» Italia, da cui s’è fatta adottare da tempo, acquistando una masseria in Puglia, sua meta preferita nelle trasferte d’artista da Los Angeles. Il cinema italiano, le ricorda Virzì, è stato fino a qualche tempo fa assai poco inclusivo: una sola sceneggiatrice, Suso Cecchi d’Amico, due sole registe, Liliana Cavani e Lina Wertmüller.

Come s’è creata pian piano, Helen Mirren, un suo posto nel cinema al maschile?
Ho via via assistito a una provvidenziale rivoluzione-donna nel cinema mondiale. Per anni i set erano popolati al 99 per cento da uomini, che pareva non se ne rendessero conto. A loro continuavo a ripetere : immaginate che, per tutta la vita, il vostro lavoro sia quello di uno o due uomini circondati da centinaia di donne. Ipotesi che ha cominciato a farli riflettere. Sono stata così testimone dell’inizio di una trasformazione epocale, di un cambiamento delle regole del gioco: è la conseguenza di nuove opportunità, che naturalmente dobbiamo cercare di ampliare. Un cambiamento che ancora va negoziato: e negoziare non è facile. Ma agli uomini dico: smettete di dare tutto per scontato.

Date le sue posizioni femministe, non si è sentita antitetica alla moglie di Hitch, Alma Reville, da lei interpretata in «Hitchcock» di Sacha Gervasi?
Se avessi sposato Hitch, sarei stata come Alma! Ma il mondo dello spettacolo oggi è molto cambiato. Ancora ai miei esordi, negli anni 60, l’industria cinematografica era un pianeta-uomo, straripante di testosterone. Un po’ meno il teatro. Da una buona ventina d’anni il sistema è mutato. Tante donne hanno fatto capolino nella produzione, nella regia, nel reparto tecnico: che emozione per me conoscere la prima direttrice di fotografia!

Come vede la coppia Hitchcock-Alma, in continua altalena tra complicità e tumulti bellici?
Penso sia stato un matrimonio felice. I due godevano d’una vita agiata, priva probabilmente di passione ma confortata da una sana intesa. Discreta ma superattiva, Alma ha contribuito con il suo talento, specie nel montaggio, al successo del marito. Eccellente partenariato. Lei era estremamente intelligente e professionalmente in gamba. Ma ha scelto di restare nell’ombra di Hitch, pur partecipando sempre concretamente alla creazione dei suoi film. Non credo abbia mai nutrito sentimenti di frustrazione, di rivalsa. Come Hitchcock, poteva anche fare il clown. Lo humor era sicuramente una chiave della loro affinità. Anzi, lo humor nero, per entrambi di marca britannica. Ogni coppia ha mille compromessi da affrontare perché la vita coniugale funzioni. Credo che molte donne vedano i loro partner come dei bambini. A me succede spesso di sbottare con mio marito: «Ma proprio non puoi sistemare almeno i piatti nella lavastoviglie?».

Prima di Alma, regina del cinema d’Hitch, lei è stata più volte regina, al cinema e nelle serie tv, tra cui nel 2006 Elisabetta II in «The Queen», con seguito teatrale. Qual è il suo rapporto, se non con le regine, con le serie?
Magnifiche esperienze, a partire da Suspect number 1, poliziesco diffuso su ITV dal 1991 al 2006, dove interpretavo il personaggio principale, l’ispettrice Jane Tennison. È stata una serie rivoluzionaria: per la prima volta una protagonista femminile. È stato il mio vaso di Pandora. Mi ha accompagnato felicemente per 15 anni, facendomi vincere numerosi premi. Un’enorme opportunità per me: vi ho imparato come si gira un film e da quanti ‘autori’ è fatto, dal regista allo sceneggiatore, dall’assistente operatore al direttore di fotografia, al responsabile del catering. Una grande scuola. Le serie, da Elisabeth I di Tom Hooper nel 2005 a Catherine the Great nel 2019, che ho anche prodotto, sono sempre state per me il momento d’un circo itinerante, come poi l’ho vissuto durante le riprese del film di Paolo Virzì.

È il tipo di cinema che preferisce?
Sì, per molti motivi. Intanto, amo molto i film italiani. E quella raccontata in The Leisure Seeker è una storia italiana, anche se ambientata negli Usa, per di più condotta sul filo dell’umorismo gentile degli altri film di Paolo: lui ha poi deciso di girare in sequenza cronologica, così il film, sulla fuga di due anziani in caravan prima dell’addio alla vita, si è formato di pari passo con il viaggio. È un on the road all’americana ma potrebbe snodarsi in Italia, dal Piemonte alla Puglia. E anch’io, come Donald Sutherland, sono stata trattata all’italiana. Sfuggendo ai vari protocolli imposti dai sistemi Usa (la parrucchiera per me, due aiuti registi e le svariate regole di ferro per le riprese), Paolo ci faceva scappare con il caravan senza aspettare il via degli americani: Donald guidava e Paolo mi aggiustava la capigliatura.

Tutto bene dunque?
A parte il dettaglio di due metodi opposti d’interpretazione. Donald, di scuola americana, è uno che si immedesima e rimane immedesimato anche fuori del set. Io sono di scuola opposta, adotto il… «metodo Mirren»: potevo lasciarmi andare prima del ciak su divagazioni quotidiane sulla cucine pugliese e poi, di colpo, concentrarmi sul mio personaggio, magari in un momento di estrema commozione. È un approccio molto britannico. Altri, come Gary Oldman, sono più immersivi. Io no, mi stanco. Tra un ciak e l’altro, voglio vivere la mia vita. In questo vado d’accordo con Kate Winslet. È distruttivo rimanere sempre ‘nel’ personaggio. Anche perché non si recita per la troupe o per il trailer, ma per la cinepresa. Mai portarsi il personaggio a casa.