Nel febbraio del 1933, a un solo mese dall’ascesa al potere di Hitler, cominciò la diaspora intellettuale che avrebbe portato alla dispersione della cultura tedesca della Repubblica di Weimar. Per gli intellettuali di origine ebraica non ci fu spesso altra soluzione per sfuggire alla persecuzione nazista se non quella di abbandonare la Germania, ma per chi non era ebreo e occupava posizioni di rilievo nel tessuto sociale dell’epoca, l’esilio rappresentava una «terza via», alternativa sia all’adesione al nazismo sia all’emigrazione interna. Quest’ultima fu praticata da chi era stato bandito dal regime in quanto le sue opere erano «contrarie allo spirito tedesco», o da quanti decisero di non allinearsi senza però abbandonare il proprio paese, dedicandosi a una silenziosa riflessione letteraria in attesa della caduta di Hitler. È il caso, ad esempio, di Gottfried Benn, che dopo un iniziale entusiamo per il nazismo trovò nell’esercito la propria «forma aristocratica di emigrazione», ma anche di quegli autori come Frank Thieß e Walter von Molo che, neppure tre mesi dopo la firma dell’armistizio, contestavano a Thomas Mann il suo atteggiamento di distaccato snobismo nei confronti della Germania del III Reich, invitandolo tuttavia accoratamente a rientrare in Germania. «La prego, torni presto, guardi nei volti solcati dall’angoscia!» gli scriveva, infatti, von Molo nell’agosto del 1945, e Mann subito replicò con Perché non torno in Germania, in cui definiva il proprio paese «una terra inquietante» che gli era diventata «estranea» e, allo stesso tempo, non lesinava parole di disprezzo per gli esponenti dell’emigrazione interna. Questa frattura tra protagonisti dell’esilio e dell’immigrazione interna non si ricompose neppure quando Mann rientrò in Europa nel 1952, stabilendosi però nella neutrale Svizzera, e avrebbe inciso sugli sviluppi della letteratura del dopoguerra.
Ma, cos’era la letteratura dell’esilio, chi sono stati i suoi maggiori esponenti e come si è riunita in California durante il nazismo l’enclave intellettuale tedesca? A queste domande, fra le altre, prova a rispondere Evelyn Juers con La casa dell’esilio La vita e il tempo di Heinrich Mann e Nelly Kröger-Mann (Bompiani «Saggi», pp. 528, euro 25,00), una complessa opera pseudo-documentaria, saggistica e narrativa, definita dall’autrice – nella nota sulle fonti che chiude il testo – come «una biografia collettiva, in un’epoca di framentazione e di flussi». Proprio da questa considerazione vale la pena partire per affrontare l’imponente volume di questa poliedrica scrittrice di saggi letterari e di storia dell’arte, che è nata in Germania nel 1950, si è trasferitata in Australia all’età di dieci anni e ha poi vissuto a Amburgo, Sydney, Londra e Ginevra. Dunque, La casa dell’esilio è innanzitutto un ibrido di generi letterari, al quale l’autrice attribuisce il seducente nome di «biografia collettiva», così che ci si aspetterebbe di leggere una rievocazione corale degli anni trascorsi da Heinrich Mann e dalla moglie Nelly in esilio. In effetti, questo si realizza solo in parte, perché Evelyn Juers non racconta soltanto gli anni dell’esilio dei coniugi Kröger-Mann attraverso i ricordi di Heinrich, che si oppose subito al regime nazista e di conseguenza abbandonò la Germania già nel febbraio del 1933, ma ripercorre la vita dello scrittore dall’infanzia a Lubecca sino agli anni statunitensi. L’opera si snoda, infatti, attraverso una sorta di ricordo corale, che rende possibile ricostruire attraverso la saga familiare dei Mann il complesso quadro del passato tedesco dal fin de siècle sino alla morte di Heinrich, avvenuta a Los Angeles nel 1950 a pochi giorni dal previsto ritorno in patria per assumere il ruolo di presidente dell’Accademia delle Arti nella Germania orientale, e a quella del fratello Thomas, avvenuta a Zurigo nel 1955.
A differenza del fratello minore, che nel 1929 aveva ricevuto il Nobel e avrebbe lasciato la Germania con la moglie di radici ebraiche solo qualche anno più tardi, Heinrich abbandonò Berlino il giorno prima che i nazisti perquisissero la sua abitazione, dove trovarono la moglie Nelly, che invano torturarono e interrogarono per sapere dove avesse riparato il marito. Nelly e Heinrich si sarebbero rincontrati nel sud della Francia, da dove l’avanzare dell’occupazione nazista li avrebbe spinti attraverso i Pirenei in Spagna, finché nel 1940 salparono alla volta di Los Angeles. Come immediatamente si rende evidente dalle pagine del libro, a differenza di diversi emigrati, Heinrich, che all’epoca aveva sessantanove anni, non si adattò facilmente alla status di esiliato e alla vita in California, e questo malgrado l’amorevole e costante presenza di Nelly, profondamente invisa a Thomas e alla cognata Katia, perché più giovane del marito di ventisette anni, ma soprattutto di umili origini e un tempo entraîneuse in quei locali berlinesi che avevano ispirato Il Professor Unrat, reso leggendario dal film con Marlene Dietrich, L’angelo azzurro, ancora oggi il romanzo di maggiore successo del più vecchio dei Mann. Eppure, come fa ampiamente capire Juers, Nelly sarebbe sempre stata fedelmente vicino a Heinrich, dagli anni berlinesi del marito sino al suidicio che, depressa e alcolizzata, la donna commise nel 1944. È proprio questo Heinrich, rimasto solo dopo la morte della moglie e intento a ricordare il proprio passato, che incontriamo nelle prime pagine dell’opera. Di fatto, il racconto dell’esilio, o meglio della vita dei Mann dalla prospettiva dell’esilio, è un lungo flahsback che, narrato in prima e in terza persona, restituisce sì la biografia dei due fratelli antagonisti Heinrich e Thomas, dal temperamento «sanguigno» l’uno e «melancolico» l’altro, ma non si esaurisce in una semplice rievocazione poetica della saga dei Mann. Juers ci offre, infatti, lungo il suo corposo libro – non senza prendersi alcune licenze – quella «biografia collettiva», appunto, che coinvolge una galleria di intellettuali tedeschi e inglesi i quali incrociaronoo il destino di Heinrich e della moglie, o che avrebbero potuto farlo.
L’impianto corale di questa biografia si lascia cogliere anche dalle fonti che l’hanno ispirata: Juers si è affidata, infatti, sia alla ricerca d’archivio, sia ai giornali dell’epoca, come pure a opere storiografiche e letterarie, in primis dei fratelli Mann, per restituire la vita di Heinrich e della moglie. La sua è dunque un’opera «collettiva» anche dal punto di vista formale, perché alle parti in prosa l’autrice ha interpolato citazioni – riportate in corsivo nel testo, ma senza mai indicarne la fonte – tratte dai testi che ha consultato per ricomporre davanti agli occhi del lettore la storia dei Mann. Così, dato documentario (fact) e finzionale (fiction) si integrano in questo libro che è certamente uno dei più riusciti esempi contemporanei di montaggio e di faction narrativa. Anche grazie a questi artifici estetici, l’autrice ha potuto raccontare quella serie di «incontri», in alcuni casi mai avvenuti, dei coniugi Mann con Leonard e Virginia Woolf, James e Nora Joyce, Aldous e Maria Huxley, ma pure con Sigmund Freud, Franz Kafka, Kurt Tucholsky, Walter Benjamin, Alfred Döblin, Bertolt Brecht, Joseph Roth, Lion Feuchtwanger e molti altri. Grazie all’espediente narrativo della dislocazione spazio-temporale Juers è riuscita a mettere in comunicazione le figure centrali della storia letteraria europea della prima metà del Novencento, affrontando in una prospettiva collettiva i problemi etici e estetici che all’epoca affliggevano la figura dell’intellettuale e quella dell’artista: l’alienazione, l’esilio e la disperata ricerca di risposte all’enigma della vita. Tutte questioni, queste, ancora oggi aperte e ricomprese nel verso di Wallace Stevens che chiude La casa dell’esilio: «viviamo in un luogo che non è nostro».