Nel semestre estivo del 1924 all’Università di Marburgo, da poco lasciato il posto di assistente di Husserl a Friburgo, Heidegger tenne un corso interamente dedicato al pensiero aristotelico. Tra i banchi, già alle sette del mattino, c’erano fra gli altri Hannah Arendt, Hans-Georg Gadamer, Hans Jonas e Karl Löwit, allievi eccellenti su i quali la lettura heideggeriana di Aristotele avrebbe lasciato segni profondi. Il corso, nella sua versione integrale, è finalmente disponibile anche in traduzione italiana con il titolo Concetti fondamentali della filosofia aristotelica (a cura di Mark Michalski, edizione italiana a cura di Giovanni Gurisatti, Adelphi, pp. 441, euro 60,00).

Erano gli anni che precedevano la pubblicazione di Essere e Tempo e il pensiero aristotelico rappresentava per Heidegger – come si sa e come è stato indagato in Italia almeno a partire dal libro di Franco Volpi su Heidegger e Aristotele – un vero e proprio nutrimento intellettuale. Ma il grande elemento di novità del corso di Marburgo sta nel ruolo svolto dalla Retorica nel pensiero del filosofo tedesco, generalmente poco indagata e molto raramente messa a tema: non per caso, ma in virtù del generale pregiudizio contro la retorica, difficile da sradicare soprattutto tra i filosofi (tra le eccezioni interessanti, nel mondo anglosassone, Heidegger and Rhetoric curato da Daniel M. Gross e Ansgar Kemman nel 2005 e, per l’Italia, Ermeneutica della vita pratica. Deliberazione e persuasione attraverso Heidegger e Aristotele di Armando Canzoneri, Mimesis 2016).

Ancora prima delle specifiche interpretazioni proposte da Heidegger, l’aspetto più interessante del modo in cui legge la Retorica di Aristotele è proprio la considerazione dell’opera come un testo filosofico: un fatto, purtroppo, tutt’altro che scontato. Lamentando quella sostanziale incomprensione che si rendeva già visibile, secondo Heidegger, nella collocazione della Retorica alla fine dell’edizione delle opere aristoteliche curata dall’Accademia di Berlino, il filosofo tedesco commentava sarcasticamente: «Non si sapeva bene che farsene, dunque in coda! È la prova della più totale insipienza. Da lungo tempo la tradizione non è stata in grado di comprendere la retorica, nella misura in cui si è ridotta ad una disciplina scolastica fin dall’ellenismo e dall’alto medioevo». Alla base della sua lettura sta la giusta convinzione che il testo aristotelico non sia un manuale per professionisti della comunicazione ma l’analisi del «discorrere assieme quotidiano»; o – come ribadirà in Essere e Tempo – «la prima ermeneutica sistematica dell’essere-assieme quotidiano».

Ciò che meglio fa comprendere la centralità della Retorica nel corso di Marburgo è il fatto che la domanda fondamentale di Heiddegger in queste lezioni riguarda la definizione dell’uomo come quel particolare vivente che ha il logos. Né ragione, né linguaggio nel senso di un sistema autonomo astratto, il Logos è invece per Heidegger il parlare (legein) concreto che è sempre innanzitutto un parlare gli uni con gli altri (e con se stessi), un parlare che – prima ancora di un semplice asserire o trasferire informazioni – è un esortare, un ammonire, un persuadere. Nei termini di Essere e Tempo, logos è discorso (Rede) e non linguaggio (Sprache).

Appunto di questa accezione del logos si occupa la Retorica, ed è grazie a questo specifico punto di vista che Heidegger può dire: «possedere la Retorica aristotelica è per noi assai più utile che disporre di una filosofia del linguaggio. Nella Retorica abbiamo, infatti, a che fare con qualcosa che tratta del parlare inteso come un modo fondamentale dell’essere in quanto essere l’uno con l’altro degli uomini, sicché una comprensione di tale legein offre nel contempo la costituzione ontologica dell’essere l’uno con l’altro sotto nuovi aspetti».

Quali sono i principali aspetti dell’essere l’uno con gli altri che Heidegger mette a fuoco? Innanzitutto il ruolo dell’ascoltare, un aspetto che verrà ripreso anche in Essere e Tempo. Nella Retorica Aristotele dice esplicitamente che il fine cui tende ogni logos è colui a cui si parla. Parlare con gli altri non è solo parlare ad altri ma è anche un lasciarsi dire qualcosa da altri. Che l’uomo sia il vivente che ha il logos non allude dunque soltanto, né principalmente, alla sua capacità di parlare ma al fatto che è in grado di prestare ascolto e «non presta ascolto solo per imparare qualcosa, ma per avere una direttiva in merito al prendersi cura pratico e concreto».

Non c’è niente di irenico in questa centralità del saper prestare ascolto. Il terreno nel quale si realizza il discorrere gli uni con gli altri è, infatti, quello della doxa (opinione), dominio specifico del discorso retorico, che dalla doxa parte e alla doxa non può che tornare. È un terreno caratterizzato dal poter essere anche diversamente, dunque dalla contingenza, dalla possibilità della revisione ma anche del conflitto. In questo dominio della contingenza essere gli uni con gli altri può significare anche essere «l’uno contro l’altro, nel senso che l’uno ha un’opinione, l’altro ne ha un’altra…». Si intravede già in questo passaggio l’analisi che in Essere e Tempo affronterà sul Si (inteso come il si dice, si fa propri del conformismo) e della chiacchiera anche se – probabilmente in ragione dell’ancoraggio ai testi di Aristotele – è meno forte il bisogno, tutto heideggeriano e ben poco aristotelico, di distinzione tra autentico e non autentico.
Centralità dell’ascolto e dominio della doxa sono anche alla base di quello che è forse il punto più alto della lettura heideggeriana della Retorica: l’interpretazione dell’analisi dei pathe (emozioni, passioni), e in particolare quella della paura (phobos) ripresa nel paragrafo di Essere e tempo dedicato all’angoscia (Angst) come situazione emotiva fondamentale.

Proprio la considerazione della Retorica come un’opera filosofica e la sua iscrizione nel contesto più ampio del corpus aristotelico mette Heidegger in grado di fare luce sul valore filosofico dell’analisi retorica dei pathe, e questo non malgrado ma proprio in virtù della sua natura retorica. A più riprese Heidegger sottolinea che la sua analisi non parte da un punto di vista «psicologico»: i pathe non sono «stati psichici» collocati nella «coscienza» (eventualmente concomitanti con fenomeni corporei) come sono invece intesi dalla tradizionale dottrina degli affetti e da buona parte della moderna psicologia, ma sono modi d’essere del vivente e caratterizzano l’uomo intero nel suo sentirsi-situato nel mondo. È questa l’osservazione che consente a Heidegger di mettere a fuoco un aspetto cruciale dell’antropologia aristotelica: l’unità originaria tra psichico e somatico.

Non esistono pathe puri, astratti dall’effettiva corporeità, perché essi sono comportamenti dell’uomo nella sua globalità e nel suo essere in relazione con gli altri. Non si tratta soltanto di ammettere che ogni stato emotivo è sempre realizzato in un soma (corpo), come diremmo che una linea è un concetto geometrico che non può esistere concretamente se non in un oggetto fisico come un tavolo di legno. La materialità del tavolo non è essenziale per la comprensione del concetto di linea, non fa alcuna differenza se il tavolo è bruno o graffiato. Non così per i pathe che possono essere davvero compresi solo se intesi in quanto pathe di uno specifico corpo (soma). Il riconoscimento di questa intrinseca corporeità dei pathe non implica in alcun modo una svalutazione del ruolo della componente cognitiva nelle emozioni (la doxa), ruolo ormai riconosciuto anche dalle scienze cognitive. Heidegger prende sul serio l’affermazione aristotelica del De Anima secondo la quale i pathe sono logoi enyloi, discorsi realizzati nella hyle (materia).

Emerge così quell «intima connessione» tra logos e pathos che è forse il cuore stesso della Retorica e che consente di comprendere meglio come il parlare sia innanzitutto un parlare con (o contro) gli altri (e insieme anche un lasciarsi dire qualcosa dagli altri) proprio perché si radica nella nostra specifica tonalità emotiva. Senza emozioni non ci sarebbero parole.

È soprattutto la paura – come tonalità emotiva fondamentale – a svolgere questo ruolo di movente primario del parlare: «in relazione al parlare l’uno con l’altro nella quotidianità, la paura si mostra come il sentirsi-situati che induce a parlare». Ogni riflessione sul logos che non tenga conto di questo suo originario essere rivolto agli altri e radicarsi nel pathos sarà sempre una riflessione monca. Ed è allora forse ancora sensato l’invito che Heidegger ad un certo punto rivolge ai filosofi affinché si decidano a riflettere non più sul logos come un semplice mostrare (deiknunai) ma «su cosa significhi, in genere, parlare ad altri».