Un diario filosofico durato oltre quarant’anni, dal 1930 fino ai primi anni settanta, migliaia di pagine dove considerazioni sull’attualità politica e sociale si intrecciano con riflessioni filosofiche sulla storia dell’essere, sull’essenza della tecnica o sull’attesa dell’«ultimo dio»: i «Quaderni Neri» di Heidegger (così chiamati da lui stesso per il colore della tela cerata con cui sono rilegati) custodiscono tutto questo e molto di più, perché ci offrono un contatto diretto, ravvicinato, quasi dall’interno, con i pensieri di uno dei più grandi (ma anche più controversi) filosofi del Novecento.

Complessivamente, i quaderni sono trentaquattro e verranno raccolti in nove volumi a conclusione delle Opere complete, pubblicate dall’editore Vittorio Klostermann di Francoforte. In Germania sono già usciti i primi quattro, quelli che coprono l’arco temporale che va dal 1931 al 1948, mentre da noi Bompiani ha appena tradotto il primo di questi nove volumi (il numero 94 della Gesamtausgabe) (Quaderni neri 1931/1938 a cura di Peter Trawny, traduzione di Alessandra Iadicco, pp. 701, euro 28,00) che contiene i primi cinque quaderni e si riferisce a un periodo particolarmente significativo per l’evoluzione del rapporto di Heidegger con la politica del suo tempo. Sono gli anni, infatti, della adesione al nazismo, dell’assunzione del rettorato all’Università di Friburgo, datata 1933, cui seguiranno le dimissioni dopo appena un anno, e un progressivo ma mai definitivo distacco dal nazionalsocialismo.

Non c’è, in questi primi quaderni, alcun esplicito riferimento alla «questione ebraica», che invece farà irruzione (una rumorosa irruzione) nei quaderni degli anni quaranta: il lettore italiano dovrà perciò attendere la traduzione dei prossimi volumi per comprendere nei dettagli la natura dell’antisemitismo heideggeriano. Qui, invece, nei quaderni degli anni trenta, quella che balza in primo piano è una vecchia questione, molto dibattuta e fonte di innumerevoli controversie: l’adesione heideggeriana al nazismo.

Sono molti gli studiosi che, in passato, hanno sostenuto l’estraneità di questa decisione politica alla natura della filosofia heideggeriana e il nesso, più verosimile, con valutazioni di ordine contingente: la crisi della Repubblica di Weimar, il nazionalismo di un vecchio conservatore, o addirittura l’incapacità di comprendere ciò che era inscritto nel qui e ora della storia, in sintonia con la famosa battuta di Hannah Arendt secondo la quale i filosofi non avrebbero mai capito granché di politica; ma, oggi, proprio un simile atteggiamento assolutorio sembra far torto al pensiero del filosofo. In questi quaderni – come, del resto, nelle poche considerazioni sul nazismo apparse negli scritti di Heidegger pubblicati in vita – il nazionalsocialismo viene presentato come un evento ontologico, intimamente legato alla «storia dell’essere». Heidegger vi riconosce la possibilità epocale di produrre una «trasformazione dell’esserci», cioè un mutamento nella relazione fondamentale tra l’uomo e il suo mondo: trasformazione realizzabile proprio grazie alle capacità del nazionalsocialismo di restare «nella lotta» e di «potersi imporre e non semplicemente diffondere».

Com’è noto, la diagnosi heideggeriana della storia dell’Occidente racconta un percorso in cui progressivamente si realizza la dimenticanza dell’essere a favore dell’ente, un oblio che accomuna la metafisica greca, il cristianesimo e la modernità. L’affermazione della tecnica nel mondo moderno sarebbe l’ultimo episodio di questa storia, in cui l’uomo pensa di poter controllare e manipolare la totalità dell’esistente. Nei quaderni degli anni trenta, proprio una simile diagnosi viene confermata e rafforzata: la «tirannia della tecnica» e dell’«organizzazione», la civiltà della «macchinazione» e del «calcolo», sembrano condurre la nostra storia all’abisso finale, al totale «sradicamento», alla «distruzione del villaggio», a un mondo in cui la cultura viene degradata a «mezzo di intrattenimento e di divertimento del popolo», a «una faccenda di commercio».
Sebbene con accenti diversi, questa stessa diagnosi ricorre negli scritti di molti intellettuali, non solo del tempo; ma per Heidegger, la condizione della modernità rimane sottratta a qualunque intervento «umano» di cambiamento, perché ha a che fare con la «storia dell’essere», cioè con un evento oggettivo su cui noi non abbiamo alcun potere.

Al tempo in cui scrive i Diari ora tradotti, questa storia gli sembra entrata nel momento decisivo, in quella «lotta» dalla quale l’ente può uscire «aperto» o «sottomesso», «onorato o scartato». Il nazionalsocialismo gli sembra offrire questa opportunità: vi vede convergere, da un lato, il destino di grandezza dell’«esserci tedesco» e, dall’altro, l’opposizione ai tratti fondamentali della modernità e della metafisica. Contro lo sradicamento e la macchinazione, contro lo «spirito della borghesia» e le sue prediche per «ciò che è vero, buono e bello», Heidegger guarda con favore alla «grandezza» del «principio barbarico» del nazismo. E benché «un mondo spirituale» non possa di sicuro sorgere «su ordinazione», tuttavia – scrive – «non dobbiamo lasciarci sfuggire l’occasione di collaborare alla sua venuta, contribuendo a creare il passaggio».

Una profonda coerenza lega dunque queste considerazioni alla struttura di fondo del pensiero heideggeriano, alla sua idea della nostra subordinazione alla storia dell’essere, rispetto al quale possiamo solo stare in ascolto, e in cui l’ascoltare è al tempo stesso un «obbedire». Del resto, fin dai tempi di Essere e tempo Heidegger aveva mostrato la sua radicale sfiducia nei confronti delle relazioni intersoggettive e sociali, ritenute fonte di assoggettamento invece che di emancipazione, così come la «sfera pubblica» veniva considerata produttrice di livellamento e deresponsabilizzazione invece che di maturazione.
Certo, Essere e tempo, rispetto alle opere successive alla «svolta» degli anni trenta, valorizzava il lato pratico e libero dell’esserci, il suo carattere progettuale, la sua capacità di disporsi verso un’esistenza autentica. Ma la «prassi» di Essere e tempo era una prassi tutta individuale, chiusa nella «decisione» esistenziale, strutturalmente sottratta a qualunque progetto di trasformazione storica e sociale.

Con gli anni trenta, quella responsabilità esistenziale, che in Essere e tempo ancora veniva riconosciuta all’esserci, è abbandonata come un residuo di soggettivismo, sostituita dal protagonismo solitario della storia dell’essere. Non più la «decisione» ma il «destino» diventa adesso il punto di vista privilegiato a cui lo stesso esserci deve piegarsi. Come la Tecnica è momento estremo di quella storia destinale, così il nazionalsocialismo appare a Heidegger la risposta adeguata all’altezza di quella sfida, un vero e proprio contromovimento inscritto nella storia dell’essere. Non dunque una risposta soggettivistica e volontaristica ma un evento oggettivo che non possiamo che assecondare. I caratteri fondamentali di quel movimento sono infatti «il condurre (Führen) e il seguire»: esattamente gli atteggiamenti che ci è possibile tenere nei confronti del nostro destino. Così, l’accettazione del rettorato, nell’aprile del 1933, significò per Heidegger una assunzione di responsabilità nei confronti della storia, l’opportunità di trovare «nuovo coraggio per il destino».

Ma dopo un anno non poté che constatare la disfatta: «Io sono alla fine di un anno fallito», scrisse nei Quaderni. Il nazionalsocialismo non si era rivelato per come era apparso ai suoi desideri: non «spirituale» come lo avrebbe voluto, bensì «volgare», di un «biologismo grossolano». Non fu che una battuta d’arresto provvisoria: si trattava, comunque, di «preparare ciò che è in arrivo». Heidegger non avrebbe abbandonato mai l’idea di un destino intrinseco al popolo tedesco, né la sfiducia nelle capacità della democrazia di dare una risposta al problema della tecnica. Non a caso, secondo le sue volontà, i Quaderni Neri sarebbero dovuti uscire solo dopo la pubblicazione di tutta la sua opera, quando la storia dell’essere avrebbe forse potuto offrire l’opportunità di vedere realizzato quel nuovo inizio intravisto negli anni trenta.