Hegra, come una capsula del tempo
Un viaggio archeologico Perla della civiltà preislamica dell’Arabia Saudita, solo di recente il sito è stato aperto al turismo: la raffinatezza austera delle tombe e la copiosità epigrafica attirò, nel 1907, gli archeologi domenicani Jaussen e Savignac...
Un viaggio archeologico Perla della civiltà preislamica dell’Arabia Saudita, solo di recente il sito è stato aperto al turismo: la raffinatezza austera delle tombe e la copiosità epigrafica attirò, nel 1907, gli archeologi domenicani Jaussen e Savignac...
In un’atmosfera sospesa, a circa 25 chilometri da Al-Ula, nel deserto millenario della regione di Medina, nord-ovest dell’Arabia Saudita: qui, intorno al II secolo a.C., i minei fondarono Hegra (citata da Plinio), che fu poi occupata dalla tribù nordarabica dei lihyan (lechieni) e, nel I secolo a.C., dai nabatei, che ne fecero la loro capitale del sud del regno – Petra era quella del nord.
Come in una capsula del tempo, la natura ha custodito queste importanti tracce delle civiltà preislamiche che, anche per via della vicinanza ai luoghi più sacri dell’Islam (condividendo il destino di altri siti tra cui Dedan), sono rimaste a lungo isolate e inaccessibili, se non ai viaggiatori occidentali più temerari. I nabatei scavarono le loro tombe nell’arenaria scolpendo le decorazioni esterne delle facciate con una raffinatezza austera, frutto di uno stile sincretico che elabora motivi ellenistici con assiri, fenici ed egiziani. Nel sito archeologico si contano 111 tombe monumentali, 94 delle quali presentano facciate scolpite che datano tra il I secolo a.C. e il I d.C., come riporta il website dell’Unesco che nel 2008 ha riconosciuto Hegra Patrimonio dell’Umanità. Solo più recentemente il sito è stato aperto al turismo, sotto la direzione della RCA – Royal Commission for Al-Ula, istituita nel 2017, nell’ambito del piano di riforme Vision 2030, con l’obiettivo di salvaguardare e promuovere le bellezze naturali e culturali di Al-Ula.
«Non prendere altro che i ricordi, lascia solo le impronte dei tuoi piedi», mette in guardia il cartello all’ingresso, pochi passi oltre le jeep verniciate d’azzurro in attesa dei visitatori. L’originalità di Hegra sta nei suoi capitelli definiti «barocchi», unici nel loro genere: a Petra non ve ne è traccia. Hanno una forma stilizzata che ricorda lontanamente una foglia d’acanto mossa dal vento. Quanto alle iscrizioni, molte delle quali riportano i nomi di architetti e scultori tutti nabatei, rappresentano un patrimonio fondamentale per lo studio di questa civiltà. Proprio l’ingente eredità epigrafica portò in questa terra remota – per la prima volta nel 1907 e successivamente nel 1909 e 1910 – gli archeologi e padri domenicani Antonin Jaussen (1871-1962) e Raphaël Savignac (1874-1951), autori della Mission archéologique en Arabie, pietra miliare per lo studio dell’archeologia nella penisola arabica e vademecum per i viaggiatori di ogni epoca.
La loro scrittura fornisce preziose informazioni sullo studio dell’epigrafia e dell’archeologia con un linguaggio coinvolgente che accompagna il lettore alla scoperta dei luoghi, come quando raggiungono il punto più alto di Hegra: «Entriamo dal passo del Diwan; è il sentiero più bello e più impressionante. Avanziamo per una cinquantina di passi tra pareti di rocce a picco, in un corridoio largo in media 3 metri. Da ogni lato ci sono delle nicchie sacre con steli votive. La prima, a sinistra, è la famosa stele consacrata al dio A’ara, dio di Rabel, che è a Bosra. La dedica è ancora intatta. Questo corridoio sbuca in una sorta di piccolo giardino irregolare, dal suolo ineguale, circondato da alte vette maestose ed eleganti, alle quali manca solamente la colorazione per ricordare i più bei siti di Petra. Ciò dà l’impressione di un haram il cui grandioso recinto è stato fissato dalla natura stessa. Sembrerebbe che anche l’antica popolazione di Hegra l’aveva capito e aveva fatto di tutto questo insieme il luogo santo del sito».
Dopo la prima missione, Jaussen e Savignac arrivarono da Gerusalemme a Mada’in Saleh in treno portando con sé la pesante attrezzatura fotografica. A Damasco partiva la Ferrovia dell’Hejaz, detta anche «ferrovia dei pellegrini» perché la destinazione finale, dopo cinque giorni di viaggio, era Medina. Questa linea ferroviaria a scartamento ridotto che attraversava 1322 km di deserto era stata inaugurata il 1° settembre 1908 (sull’argomento ci sono diversi libri, tra cui The Hejaz Railway di James Nicholson e The Hejaz Railway: The Construction of a New Hope di Metin M. Hulagu), realizzata per volere dell’ultimo sultano ottomano Abdul Hamid II, ma fu smantellata dopo i danni riportati durante la Grande Guerra e solo in parte è attiva ancora oggi nella diramazione nell’attuale Giordania. Le fotografie dei padri domenicani (il fotografo in realtà era Jaussen), complementari alla loro scrittura, sono documenti di grande importanza anche in considerazione del fatto che le testimonianze precedenti erano affidate solo al disegno: nel 1999 sono state esposte nella mostra Photographies d’Arabie: Hedjaz 1907-1917, organizzata dall’IMA – Institut du Monde Arabe di Parigi con la Fondation Al-Turah. Scrivono: «Partiamo ogni mattina, portando su un cammello che siamo riusciti a comprare da un gendarme una scala lunga 9 metri, un otre pieno d’acqua e gli apparecchi con tutto il necessario per la fotografia e la stampa. Abbiamo con noi un beduino di Madaba, e quattro soldati ben armati ci accompagnano ‘per sorvegliarci’, secondo l’espressione del maggiore Zaky. (…) Visitiamo uno a uno tutti i sepolcri ed ogni volta che scopriamo un’iscrizione la fotografiamo e stampiamo la foto. Non è cosa sempre facile, a causa del vento che soffia regolarmente tutte le sere, qualche volta anche durante diverse ore della mattinata. È assai ordinario strappare diversi fogli di carta prima di ottenere una buona stampa. Quando la brezza è troppo forte, si copia, si disegna oppure si dà la caccia ai graffiti. Il lavoro s’interrompe solo pochi istanti a mezzogiorno, per una colazione presa nell’ombra ospitale e molto archeologica di un sepolcro. Si rientra al campo la sera col buio».
Anche Tony André (1868-1953) arrivò a Hegra in treno, sulle orme di Jaussen e Savignac di cui conosceva l’opera, proprio come aveva letto Travels in Arabia Deserta (1888) di Charles Montagu Doughty, libro riscoperto dal tenente colonnello Thomas Edward Lawrence (Lawrence d’Arabia), che lo fece ripubblicare negli anni venti, e compagno di viaggio inseparabile di Gertrude Bell (la Regina del deserto del film di Herzog), protagonista tra l’altro di una complicata storia sentimentale con l’ufficiale Charles Doughty-Wylie, nipote del viaggiatore inglese. André era fotografo amateur, teologo, pastore della Chiesa Evangelica riformata di Firenze, docente di lingua e letteratura francese, studioso di archeologia biblica, conferenziere, scrittore e soprattutto appassionato viaggiatore, di cui l’ICCD – Istituto Centrale per il Catalogo e la Documentazione di Roma conserva un ingente fondo fotografico storico.
Autore in tarda età anche del romanzo Le cachet du roi Mésa (da lui definito «folkloriste»), in cui affiorano le memorie edulcorate dei suoi viaggi in Medio Oriente nel 1908 e 1910, proprio a Mada’in Saleh (come è documentato dalle didascalie scritte a mano lungo il bordo inferiore delle lastre con l’indicazione della data 1910) scattò un nucleo di sessanta negativi e cinquanta diapositive di vetro. Il suo sguardo si sofferma sui dettagli architettonici con i caratteristici capitelli, alternandoli a scorci panoramici con le facciate delle tombe nabatee; c’è anche il forte turco e il capitano ottomano Ismail con i soldati nel carrello sulle rotaie della ferrovia dell’Hejaz. Ma, soprattutto, è presente quella natura straordinaria con le rocce che guardano in su, cambiando colore a seconda della luce del giorno e, tra la sabbia, ecco spuntare i cespugli spinosi con qualche Sidr tree, lo Spinacristi citato nell’Antico Testamento: un albero esemplare per la sua capacità di resistere alla siccità e alle alte temperature.
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