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Heaney nella miniera degli antichi, coi modernisti

Nei suoi Sonnets from Hellas – pubblicati in Electric Light (2001) – Seamus Heaney mette a frutto l’esperienza del suo primo viaggio in Grecia, compiuto all’età di cinquantasei anni, nell’ottobre […]

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 9 agosto 2020

Nei suoi Sonnets from Hellas – pubblicati in Electric Light (2001) – Seamus Heaney mette a frutto l’esperienza del suo primo viaggio in Grecia, compiuto all’età di cinquantasei anni, nell’ottobre del 1995. Come già in Stone from Delphi (una lirica raccolta in un libro di quasi vent’anni prima, Station Island), il poeta irlandese lavora su uno spunto geografico preciso, ma stavolta facendo davvero di questi sonetti una sorta di breviario itinerante, che la dice lunga su una delle qualità che hanno reso inconfondibile la sua scrittura in versi: la capacità di accogliere largamente vari registri dell’esistenza, o quella che potremmo chiamare la spregiudicata generosità di Heaney nei confronti del reale. Eccolo ricordare i luoghi attraversati – l’Arcadia, Sparta, il «Mount Parnassus placid on the skyline»– come in una holiday postcard, oppure i sapori e gli aromi locali, ma anche la poesia antichissima, mescolata ai tragici conflitti che per decenni hanno insanguinato il suolo dell’Irlanda del Nord, e sono un’altra costante della sua poesia.
Quel viaggio in Grecia resta in ogni caso memorabile, nella parabola di Heaney, anche per un’altra ragione. È un viaggio destinato a essere interrotto da una grande notizia: la vittoria del Premio Nobel. È anche più seduttivo, allora, vedere che è una foto scattata in quei giorni ellenici – davanti alle rovine di Corinto – ad aprire Seamus Heaney and the Classics Bann Valley Muses, edited by Stephen Harrison, Fiona Macintosh and Helen Eastman, (Oxford University Press, pp. 304, $ 90). Questo lavoro collettivo è una vera e propria mappa, che guida il lettore nel continente dei rifacimenti, delle traduzioni e delle allusioni, insomma del felice e vasto debito coltivato nei confronti del mondo classico. È quello che Lorna Hardwick, nell’Epilogue che chiude il volume, definisce il ‘Classical Ground’ di Heaney, un reticolo di riferimenti che qui è restituito includendo affondi monografici e interventi più trasversali, che ricostruiscono per esempio la permanenza di un genere come quello dell’ecloga, cui la fortuna di Heaney – non escluso il suo late style – deve moltissimo. Ma queste pagine si possono attraversare anche tenendo conto di un doppio binario di fondo (inevitabile quando si ha a che fare con la classical reception): quello che conduce in Grecia e quello che si inoltra, d’altra parte, verso Roma, il che significa anzitutto verso il suo Virgilio, per esempio quello del libro VI dell’Eneide, protagonista di una strepitosa riscrittura consegnata a una raccolta di versi del 2010, Human Chain.

Il concetto di risarcimento
Probabilmente la parte più preziosa del volume è proprio quella ‘greca’: la Grecia di Heaney è più tragica che omerica o lirica, ed è servita qui dai saggi che compongono la prima parte del volume, fra cui spicca l’incursione di Michael Parker (Speaking Truth to Power), imperniata su The Burial at Thebes – cioè l’Antigone di Heaney, che risale al 1990. Ma Parker ha anche il merito di mettere l’Antico in contatto diretto con quello che è, per il poeta irlandese, il compito fondamentale di ogni scrittura in versi, ovvero il Redress, il risarcimento (The Redress of Poetry si intitolava proprio la serie di Oxford Lectures pubblicate da Heaney nel 1995). Al di là comunque dei temi dei singoli saggi, forse si può dire che Seamus Heaney and the Classics si può percorrere almeno in altri due modi. Ponendo attenzione, intanto – come sempre si dovrebbe quando si ha a che fare con la storia della tradizione – a quelli che potremmo chiamare i mediatori di Heaney: a figure e letture che lo aiutano a inoltrarsi nell’Antico. È per esempio suggestivo sapere che già Robert Lowell, negli anni sessanta, traduceva Eschilo, il che qualcosa può contare per l’Heaney che poi scrive un suo Mycenae Lookout (1996); oppure, guardare al reimpiego dei classici tenendo in controluce l’esperienza del Modernismo, fra Pound e il mythical method di Eliot; o ricordarsi, infine, che il mito di Anteo – carissimo a Heaney, e affrontato qui da un saggio di Neil Corcoran (Antaeus on the Move) – faceva già capolino nel grande custode della modernità lirica irlandese, William Butler Yeats. Il poeta – scriveva Yeats – deve trarre la sua forza, come Anteo, «from contact with the soil», tutto ciò che canta deve venire dal contatto con la terra: versi che, per un poeta come Heaney, sembrano funzionare da talismano. Del resto già in Digging (una grande lirica che si legge in Death of a Naturalist, 1966), lo strumento del suo lavoro, la penna, conviveva con la vanga del padre-contadino, intento a scavare. E intanto questi fondamenti della scrittura di Heaney ci spiegano anche, chiudendo il cerchio, perché Esiodo abbia una parte di assoluto rilievo nel suo rapporto con la Grecia: basterà pensare proprio all’atto dello scavo e dell’aratura – il ploughing – per come è raccontato ne Le opere e i giorni esiodee, che per Heaney possono davvero diventare l’opera in cui riconoscere se stesso, la propria radice rurale. Una Personal Helicon, per rubare un suo titolo: un’occasione identitaria, per quanto lontanissima.

Il mito è finestra sul contemporaneo
Sta proprio in questa tensione temporale – diciamo pure nel rapporto con la storia – una seconda, straordinaria chiave di lettura dell’Heaney ‘antichista’. Anche in questo resta meravigliosa la sua lezione: nella sua capacità di essere, insieme, poeta del mito e poeta della storia, o di saper fare germogliare magicamente questa da quello. Quasi sempre le ragioni del mito aprono una finestra sul contemporaneo: più spesso, sul sangue del presente. È facile verificare quanto la tragedia greca sia sfruttata da Heaney per dare voce – proprio nei difficili anni novanta del secolo scorso – al conflitto nordirlandese (con la già citata Antigone, o con il Filottete di The Cure at Troy). Oppure, per tornare stavolta a Roma, basterà lasciarsi avvincere dal violentissimo anacronismo con il quale un’ode oraziana (I, 34) può diventare una sorta di instant poem, scritto subito dopo l’11 settembre 2001, per «rispondere» alla caduta delle Torri gemelle, con il titolo di Anything can happen (ne dà qui una dettagliata lettura Harrison): «Anything can happen, the tallest towers / be overturned…».
Questo intenso pathos della storia non impedisce comunque che il mito sappia trovare, in Heaney, anche una sua dimensione più riposta, diciamo pure quotidiana o larica. Non è un caso che il suo amore per il descensus virgiliano si incontri con l’importanza, nei suoi versi, della già richiamata figura paterna. O che, altrove, la nascita di una nipotina sia salutata con un mazzo di steli d’avena: «come un ramo d’oro fatto di paglia», ha scritto lo stesso Heaney. È anche in questa capacità di unire la paglia e l’oro che sta la grandezza di un poeta così consapevole, e insieme – ancora un poco – ingenuo, capace di salvarsi da ogni retorica della Poesia: in quel suo sguardo colto e prodigiosamente frugale, da grande re campagnolo.

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