Qualcuno (l’ineffabile Frederic Prokosch) ha raccontato che, quando T. S. Eliot venne a Roma nel 1958, dietro suggerimento del «Professor Mario Praz» volle recarsi con lui (Prokosch) a visitare il boschetto del Lago di Nemi, ripercorrendo le orme di Sir J. G. Frazer. Il Ramo d’oro si apre e si chiude infatti proprio lì, sulle sponde di quel lago, con il cullante rintocco delle campane di Roma udibile (difficile! si entra nella contaminazione del mitografico) attraverso la Campagna. Sappiamo che nel 1922 la lettura di Frazer era stata di grande impatto sul concepimento della Terra Desolata, in cui – su avvertimento di Ezra Pound – è la Sibilla Cumana del Satyricon di Petronio a parlare in esergo tramite la sconcertante epigrafe al poemetto. E forse sappiamo anche che l’antica Tivoli, a due passi dal lago, dove Prokosch e Eliot avrebbero abbondantemente pranzato alla romana (!), alla Sibilla aveva dedicato un tempio, tutt’ora in piedi. Sull’onda del dipinto che William Turner eseguì a Roma (Lake Nemi, 1819-1828), Frazer colloca a Nemi la quercia del ramo d’oro. Il pellegrinaggio sarebbe stato dunque doveroso. L’amabile storiella, come si può vedere, è molto affascinante ma – c’è un ma – purtroppo non è vera. Prokosch, il quale la racconta nell’autobiografico Voci, aveva la bizzarria di ‘ricreare’ a suo modo celebri personaggi del mondo letterario, forse da lui neanche mai incontrati.
L’abbraccio col padre
Come cronachista, e chaperon, delle sue visite romane, Seamus Heaney non ebbe un Prokosch, falsario e immaginifico, alle sue spalle, quindi non si sedette mai all’ombra della quercia di Nemi. Forse avrebbe dovuto, considerato il ruolo che Virgilio e l’Averno cumano ebbero nella sua vicenda poetica. Lo studiò al college; possedeva una vecchia copia dell’Eneide, acquistata per pochi spiccioli da un antiquario di Belfast, come egli stesso racconta in «Linea 110» di Catena umana (Human Chain), il suo ultimo dono (2010) al canone «riparatore» dello spirato Novecento; ne cita o onora spesso le opere nelle sue poesie, in particolare in Veder cose (Seeing Things, 1991), che esordisce con «Il ramo d’oro» virgiliano (vv. 98-148 del VI libro) in una resa (strano a constatarsi nella presente occasione!) tutta completamente rivoluzionata nella versione finale; e, infatti, si cimenta infine in una traduzione dell’intero Libro VI: la discesa agli Inferi, culminante (emotivamente) nell’‘abbraccio’ virtuale di Enea con l’ombra del padre Anchise.
Questa traduzione, pubblicata postuma nel 2016, fu probabilmente concepita in occasione della morte del proprio padre ‘bucolico’ nel 1986: «Avessi dovuto abbracciarlo da qualche parte /sarebbe dovuto accadere sulla riva del fiume», dice Heaney in Catena Umana. L’arduo intento si concreterà solo a partire dal 2007 per concludersi nel luglio del ’13. Considerato il lungo corteggiamento, ci pare di sentire l’assonanza di un vero e proprio incontro di ‘anime’ unite da affinità elettive, entrambe georgiche, storicamente ‘psicopompe’, patriottiche, epiche: padre Virgilio e erede. Ma con una differenza.
Fortunata occasione per il ‘pellegrino appassionato’ di questi ‘ritorni’ vichiani è pertanto l’arrivo nelle nostre librerie della traduzione della traduzione del Libro VI che, a questo punto, ha fatto un lungo viaggio nel tempo della translatio, trasportando la nekuia di Enea dall’Averno cumano – e prima ancora omerico – all’approdo in Irlanda, dove una volta si confinava il «non plus ultra», per poi tornare a re-impossessarsi del suo luogo di nascita. L’impresa (Eneide, Libro VI, Il Ponte del Sale, pp. 118, euro 18,00) è per mano di un gruppo folto di esperti, una vera e propria squadra in concerto: cura di Marco Sonzogni, traduzione di Leonardo Guzzo e Giovanna Iorio con la partecipazione di Alessandro Fo, Marco Sonzogni e Teresa Travaglia, prefazione di Alessandro Fo, postfazione di Teresa Travaglia, due note critiche di Rachel Falconer e Marco Fernandelli, assieme all’aggiunta della «Nota del traduttore» (Heaney) all’edizione Faber del 2016, forse la sua ultima scrittura.
Cosa significa questa proposta editoriale lo spiegano, ciascuno dal suo punto di vista, un po’ tutti i convitati al banchetto. Cosa significa per noi lettori italiani questa ri-ri-traduzione di parte di un testo che conosciamo, fra altre, nella bella versione di Luca Canali (Mondadori, 1978) e in quella altrettanto bella, più recente e assai gratificante, di Alessandro Fo (Einaudi, 2012). Ebbene, significa molto, soprattutto per il frequentatore di poesia inglese e americana, perché essa obbliga (o addirittura sfida) a «dialogare» non con due soli poeti (Virgilio e Heaney) ma con la lingua di molti poeti, sedimentata nei precordi di Heaney: i suoi maestri, i suoi ‘compagni’ irlandesi e gli altri di cui si occupa così bene nelle sue prose critiche. Lo ammette lo stesso Heaney nella «Nota» prefatoria, in cui non solo dichiara di aver applicato alle sue riscritture il «metodo mitico» di Eliot, ma si proclama in dissenso con il finale del libro sesto, dove si annuncia la schiera di generazioni di eroi romani; e soprattutto si proclama in dissenso con la non-risoluzione del pathetikós implicito nella visione delle anime raccolte sul Lete in attesa di ritornare alla vita. Per lui invece quel prefinale di sospensione doveva trasmutarsi non in una profezia di «generazioni» future ma in un vero «rinascere» alla vita (qual è, in effetti, la sua traduzione) di ombre consegnate alla speranza del ritorno o, come nel suo caso, della nascita augurale di una nipotina («la cui attesa sulla riva ombrosa ha avuto fine»), alla quale egli passa in dono un mannello di steli d’avena: metamorfosi irlandese del ramo d’oro.
Tale impuntatura di dissidenza («estro», «feroce determinazione») che, in una «Nota al testo» dell’edizione inglese per mano di Catherine Heaney e Matthew Hollis, Heaney attribuisce alla sua allergia alla celebrazione degli «imperialismi» (romano, il più contaminante, in Virgilio), lo costringe a definirsi «uno scrittore di versi che ha nella testa e nell’orecchio altre preoccupazioni (“things”) che non quella della fedeltà al testo»: metro, voce, cadenza… Dunque, al di là delle affinità, ci tocca qui «dialogare» con una tacita intertestualità da «metodo mitico» (molte voci, compresa la sua del dissenso), voluta o inconscia, sebbene, direi che in alcuni casi quel vezzo – tutto «modernista» – sia nella presente circostanza più voluto che inconscio; come tutta modernista («non si usi assolutamente alcuna parola che non contribuisce alla presentazione»; «non si usi alcun ornamento, anche se buono») è la ‘compressione’ del testo di partenza in un racconto più agile, un ritmo più sincopato, dando vita a un nuovo testo che ci appare parecchio sfrondato del di troppo virgiliano (verbale: retorico) o di sintagmi che al nuovo «talento» non interessano (seguire le cassazioni di Heaney significherebbe inoltrarsi in un cammino lungo, ma molto, molto, lungo). Eppure, c’è dell’altro da considerare.
Per ragioni di spazio, mi permetto un solo esempio. All’inizio del libro viene subito presentato «l’immenso antro» della «tremenda Sibilla» («a vast scaresome cavern / The Sibyl’s deep-hidden retreat»: «orrida immensa caverna»). Heaney decide di cassare il sintagma aggettivale «tremenda/horrendaeque» (Fo), trasferito dai traduttori-mediatori dalla Sibilla alla sua caverna. Quest’ultima in inglese appare solo, diciamo, «spaventosa». Ma perché Heaney non vuole che la sua Sibilla sia «tremenda/orrenda»? Andiamo avanti al verso 146. Lì dove, dopo aver ascoltato le profezie belliche e luttuose della divina Veggente con l’esortazione a non demordere sulla sua missione, l’Enea di Heaney risponde: «Nessuna sfida, Sibilla (virgo), nessun’altra / prova può avvilirmi, siccome ho già visto (“foreseen”) / e già sofferto tutto (“foresuffered all”)»; «tutto ho già colto (praecepi) e nell’animo tutto ho già prima percorso (peregi)» (Fo). Insomma, si notano qui parecchi slittamenti messi in scena da parte di tutti i traduttori, Heaney incluso, anzi soprattutto da parte sua.
La memoria di T. S. Eliot
Cosa dobbiamo dedurre? Niente più che, da parte di Heaney, una memoria indelebile, per chi l’ha ricevuta, riesce a infiltrarsi nella sua restituzione. Se infatti andiamo a rileggere The Waste Land, si vedrà che nel Virgilio di Heaney, Enea sta indossando i panni di Tiresia: «(And I Tiresias have foresuffered all)». Tuttavia non si deve intendere che l’eroe troiano, volto ad alte imprese, voglia immedesimarsi nell’avvizzito voyeur Tiresia – destituito da Eliot, fra l’altro, della sua funzione sacra e arcana –, nonostante, davanti alla Sibilla profetica, Enea stia egli stesso facendo il profeta che sa di aver già colto e considerato nell’animo tutto quel che ha da avvenire. Si tratta semplicemente di un’eco (un hapax di Eliot: foresuffered) che a Heaney fa comodo, o di cui non s’accorge (difficile!), un’eco che va a investire la situazione virgiliana di una coscienza moderna, di una scrittura di sofferenza personale (autobiografica), del sentore di una contemporaneità desolante (il moderno Tiresia di Eliot non vede l’eroico ma il volgare), la stessa che sortirà col tempo dal futuro della fondazione imperialista di Enea (e l’Irlanda ne sa qualcosa!). Insomma, quella piccola libertà che Heaney si concede riesce a conferire all’originale un’altra aura, frutto di una sfumatura che ne altera l’atmosfera, per riconsegnarlo mutato a un nuovo contesto.
Bene hanno fatto i traduttori a cavarsela con un «già sofferto tutto» (che non c’è, appunto, nel testo virgiliano), sebbene, per restare in linea con la citazione eliotiana (che cambia un pochino il target della restituzione), la resa giusta sarebbe stata «presofferto tutto». Quanto alla non «orrenda» Sibilla, la cassazione rientra negli effetti voluti da Eliot per il suo poemetto. La sua Sibilla è da lui nobilitata, e autorizzata a parlare, non tanto per le sue capacità divinatorie, ma perché lei, ai ragazzini che la irridono, risponde soltanto «voglio morire». Assistere a giorni di decadente desolazione (e persino con il Satyricon già ci siamo!) è come continuare a subire una non-morte che, nella sua ormai grinzosa immortalità, per lei – un tempo bella, giovane e amata (da Apollo) – è irrimediabilmente solo una sterile morte «spirituale», com’è in effetti «spirituale» quella dei moderni «morti» alla «vita» di Eliot nella terra desolata. La vecchia Cumana, rimpicciolita in un’ampolla, che in Petronio desidera solo morire, non è «orrenda», e ha una funzione significativamente positiva e anaforica in The Waste Land, una funzione che si mantiene viva persino ai giorni nostri. È solo una sfumatura, una sfumatura, che restituisce in pieno Virgilio al clima dei primi anni Duemila.