La figura di Haskell Wexler, nato nel 1922, racchiude da sola tutto il mondo del cinema. Grandissimo direttore della fotografia, illumina tra gli altri i film di Elia Kazan, Tony Richardson, Terrence Malick, Blake Edwards, Denis Hopper, Frank Zappa e George Lucas, vincendo due volte l’Oscar: nel 1966 per Chi ha paura di Virginia Woolf? (di Mike Nichols), e nel 1976 per Questa terra è la mia terra? di Hal Ashby. Al tempo stesso, come regista e operatore, Wexler per tutta la vita ha produce, gira, fotografa documentari e film narrativi impegnati, radicali, talvolta persino clandestini. In questo senso è il decano di quell’appassionante tradizione di brillanti direttori della fotografia diventati cineasti rivoluzionari, in sostegno delle lotte sociali e delle guerre di liberazione – come Yann Le Masson, Franck Pineda, Bruno Muel, Jean-Michel Humeau e Guillermo Escalón.
Un impegno che gli vale il terzo Oscar, nel 1970, per Interviews with My Lai Veterans diretto da Joseph Strick, una serie di testimonianze contro la guerra in Vietnam. Nello stesso anno, Wexler racconta così il suo apprendistato: «Ho cominciato a volare con le mie ali solo dopo aver collaborato a diversi cortometraggi educativi come assistente-operatore. Sono stato nel Sud degli Stati uniti per realizzare film sui lavoratori; i sindacati operai li utilizzavano al solo scopo di strutturare meglio le proprie organizzazioni.» (Da un’intervista con Rui Nogueira, Cinéma 70, maggio 1970).

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Questa esperienza «fondatrice» mette a fuoco le caratteristiche dello stile di Haskell Wexler: una triplice esigenza di chiarezza, efficacia e senso del collettivo. Autore o co-autore di una trentina fra corti e lungometraggi, Wexler si è schierato su tanti fronti: i diritti civili e l’antirazzismo, l’antimperialismo in Vietnam, in Brasile, in Nicaragua, l’anticapitalismo ovunque; di recente a fianco del movimento Occupy. Nei suoi continui scontri con la Cia e l’Fbi, il suo status di direttore della fotografia invece di proteggerlo lo rende più visibile e vulnerabile.

Nella sua prefazione agli scritti dell’amico e compagno di cinema Emile de Antonio, in cui ripercorre la lavorazione di Underground nel 1976 (il film sui Whethermen, il gruppo clandestino nato alla fine degli anni Sessanta dal movimento studentesco negli Stati uniti, ndr) racconta: «Avevo filmato due giorni di conversazioni con cinque giovani fuggitivi in una casa di Los Angeles. Poco dopo, mi sono reso conto che ero sorvegliato dall’Fbi. Un elicottero ha cominciato a seguirmi ogni volta che uscivo, e due uomini in giacca e cravatta per giorni hanno finto di cambiare una gomma all’automobile davanti a casa mia. Sono stato derubato. I miei materiali sono stati perquisiti e l’Oscar vinto per Chi ha paura di Virginia Woolf? è sparito. Gli agenti mi hanno mandato un ordine di comparizione. Volevano tutte le immagini che avevo girato» (Emile De Antonio, A Reader, University of Minnesota Press, 2000).

Nelle manifestazioni come nelle zone di guerra, fra i guerriglieri in fuga o in esilio, Haskell Wexler rappresenta sempre i protagonisti delle lotte come dei combattenti, mai come vittime. Brazil: a Report on Torture (1971) mostra in modo esemplare come anche nelle torture fisiche o psicologiche più crudeli permagono risorse che fanno resistere e lottare, fino alla morte o fino alla liberazione. A proposito delle giovani reclute sandiniste senza esperienza, uno dei soldati di Target Nicaragua: Inside a Secret War (1982) rivela la sostanza delle figure che popolano i film di Wexler, spiegando con queste parole le molte vittorie riportate dalle guerriglie contro forze ben superiori sia in uomini che in mezzi: «Da una lotta così impari nasce una morale rivoluzionaria, perché il soldato sa per quale ragione si batte contro il proprio nemico». Ecco perché l’efficacia passa attraverso la chiarezza: i film di Wexler mostrano e spiegano le convinzioni politiche, i fondamenti di un’analisi, le scelte relative a dove mettere una macchina da presa, le fonti della propria determinazione. Inserendo un elemento narrativo all’interno di un’opera «documentaria», Haskell Wexler dedica il uo film tuttora più conosciuto al risveglio di una coscienza politica: Medium Cool (1969), critica dell’informazione televisiva e del giornalismo mercenario ispirato al tempo stesso a Marshall McLuhan e a Jean-Luc Godard. Pertanto non c’è nulla di autoriale in questo percorso di consapevolezza: il lavoro del cinema non vuole rappresentarsi come opera ma piuttosto alimentare l’energia collettiva, nel presente e per il futuro.

A chi gli chiede delle sue motivazioni, Haskell Wexler consegna l’arte poetica di uno dei suoi ultimi documentari, Four Days in Chicago: «È la lotta. Mi interessa la natura e la durata della lotta. E una parte di questa lotta, la nostra pratica, consiste nel trasmettere le storie e realizzare le immagini. Rassicurando le persone che militano, che mettono in gioco il proprio corpo, che il loro impegno viene riconosciuto. È semplicemente questo». (traduzione a cura di Marinella Correggia)

* curatrice dell’omaggio a Haskell Wexler dal titolo: «At work»