Una piccola cittadina del Colorado di nome Holt, non distante da Denver; una comunità nella quale tutti, più o meno, si conoscono; un piccolo crocchio di personaggi che rappresentano tutte le fasi della vita: dall’infanzia tormentata di Ike e Bobby, i due fratelli che, nell’arco di pochi mesi, imparano a conoscere l’abbandono – da parte della madre –, la violenza e la morte, all’adolescenza di Victoria Roubideaux, la diciassettenne che, rimasta incinta, abbandonata dal ragazzo e cacciata di casa dalla madre, rinuncia comunque ad abortire e sceglie di tenere il bambino; dalla sofferta maturità di Tom Guthrie, il padre di Ike e Bobby, che tenta affannosamente di ricostruirsi un’esistenza e di non perdere la propria integrità di insegnante di storia americana, alla dolce e bizzarra vecchiaia dei fratelli McPheron, contadini e allevatori, due anime solitarie e bisbetiche che accolgono in casa Victoria e lasciano che il vento della novità e del cambiamento travolga la loro esistenza.
Questi gli ingredienti di Canto della pianura, terzo romanzo di Kent Haruf e primo volume della cosiddetta «Plainsong Trilogy»: uscito negli Stati Uniti nel 1999, finalista al National Book Award, già proposto in Italia da Rizzoli nel 2000, viene ora ripubblicato dall’editore N.N., (301 pagine, euro 18,00), in una traduzione completamente nuova di Fabio Cremonesi, cui era già stata affidata, nella prima metà dell’anno, la versione italiana di Benedizione, atto conclusivo della trilogia stessa, accolto con grande interesse dalla critica. Né il piano editoriale di N.N. si concluderà con Canto della pianura: è stata già annunciata, per il 2016, la pubblicazione di Eventide, capitolo intermedio della «Plainsong Trilogy», e di Our Souls at Night, l’ultimo romanzo di Haruf, uscito negli Stati Uniti ad alcuni mesi dalla morte dell’autore.
Proprio dal termine Plainsong, che fa da titolo non solo al romanzo inaugurale ma anche alla trilogia nel suo insieme, può essere utile partire per comprendere quali siano i fondamenti della poetica di Haruf, e le ragioni della sua originalità. Come Cremonesi stesso ricorda in una opportuna nota al testo, la traduzione scelta per la versione italiana, Canto della pianura, non esaurisce di certo i significati dell’originale, visto che «il termine inglese Plainsong significa ‘canto piano’ (forma di canto a cappella monodico – ossia privo di accompagnamento musicale ed eseguito all’unisono – diffuso nel Medioevo in ambito ecclesiastico; il Canto Gregoriano, per esempio, è un tipo di canto piano), oppure si può utilizzare per riferirsi a qualsiasi melodia o motivo musicale semplice e sobrio». Plainsong, allora, oltre che richiamare l’ambientazione del romanzo – le grandi pianure che i personaggi percorrono di giorno e più spesso di notte, e che sono continuamente squassate dal freddo e dalle intemperie –, allude alla cifra che lo attraversa per intero: un canto severo e spoglio, senza accompagnamento, e che, da coacervo di voci e presenze che appaiono scollegate l’una all’altra, si distende progressivamente in una monodia che cancella ogni distinzione.
Haruf non ama i barocchismi, le orchestrazioni dalla complessità esibita, i compiacimenti letterari. Cerca la sintesi, la sottrazione, il lavoro sui silenzi e sul non detto. Si dimostra, in questo, fedele a una grande tradizione americana nella quale gran parte della critica lo ha ricompreso, e che parte da Sherwood Anderson e da Hemingway per arrivare fino a Richard Ford. Una tradizione che, non a caso, si identifica concretamente e geograficamente con il Midwest: con quel grande centro del subcontinente nordamericano fatto di comunità sparse, di paesaggi scabri, di una quotidianità scandita da piccoli gesti, tutti apparentemente irrilevanti ma in grado, se raccontati nel modo giusto, di spalancare mondi e abissi interiori. Se però, in Anderson come in Hemingway, la ricerca della sintesi estrema portava quasi naturalmente a privilegiare la forma del racconto, nella quale veniva messa in scena la scissione o il rapporto contrastato e difficile tra un protagonista – il George Willard di Winesburg, Ohio o il Nick Adams di Nel nostro tempo – e il milieu nel quale era costretto a vivere, Haruf opta invece per una costruzione a cappella, un coro di voci che, per poter suonare assieme e convergere verso un canto unico, necessitano di uno spazio più ampio e di una traiettoria compiutamente romanzesca.
La comunità di Holt, paese immaginario ma in tutto e per tutto simile alla cittadina di Yuma dove Haruf ha trascorso buona parte della sua esistenza, non ha nulla di irenico o di falsamente rassicurante: i personaggi che la popolano sembrano quasi aver interiorizzato il paesaggio contro il quale si stagliano, tra gelo, uragani, squarci di intollerabile bellezza. La violenza attraversa la vita di ogni giorno, quasi sempre in sordina, per esplodere in tre straordinarie scene che hanno tutte per protagonisti animali, e che fungono da perfetto controcanto narrativo alla morte e alla nascita che scandiscono le pagine finali del romanzo. D’altro canto, è evidente in tutti i protagonisti – e tanto più nei vecchi McPheron e nell’insegnante Maggie Jones, autentico deus ex machina che riconduce a unità le vite disperse degli altri personaggi – la condivisione di un sistema di valori elementari, nel quale la solidarietà e la capacità di «essere sempre cristallini, qualunque cosa accada» fungono da puntello irrinunciabile contro le asperità di un mondo troppo spesso segnato dall’abbandono e dal fallimento. Da Holt, a differenza che da Winesburg, Ohio, non si fugge perché non si vuole fuggire. E anche quando lo si fa – come nel caso di Victoria, che per breve tempo sceglie di ricongiungersi al ragazzo che l’aveva abbandonata, e si trasferisce a Denver – si finisce per scoprire che l’unica, vera forma di saggezza è nel tornare a casa.
In questa adesione ai valori della piccola città incistata nel cuore stesso dell’America, Haruf si dimostra tematicamente lontanissimo dai maestri del modernismo americano, che celebravano nelle loro opere quello stesso radicamento ed espatrio messo in atto nelle rispettive vite. Non diversamente dal Cormac McCarthy di un altro, celebre trittico narrativo – quella Border Trilogy il cui capitolo finale, uscito un anno prima di Plainsong, si intitolava, con curiosa analogia, Città della pianura –, il suo obiettivo è celebrare senza idealizzare: raccontare un mondo di creature – umane e animali – smarrite quanto indomabili, immerse in un dolore sordo per il quale, però, esiste sempre riscatto.
In un’intervista rilasciata a Denvercenter.com poco prima della morte, Haruf ha dichiarato: «Voglio pensare di aver scritto quanto più vicino all’osso che potevo. Con questo intendo dire che ho cercato di scavare fino alla fondamentale, irriducibile struttura della vita, e delle nostre vite in relazione a quelle degli altri». Un’affermazione fintamente semplice, che in realtà contiene la sintesi difficile di due straordinari talenti: quello di sottrarre e cercare l’essenza di una vita, ma anche quello, trovata l’essenza, di relazionarla ad altre essenze, di farla diventare coro. La grandezza di Canto della pianura, come già di Benedizione, sta tutta nella cura certosina con cui uno scrittore decentrato e lontano dai fasti massimalisti di tanto romanzo contemporaneo ha saputo elevare il quotidiano ad assoluto, in un susseguirsi di quadri che lasciano stupefatti per la potenza e la precisione del tratto, e che convergono e si fondono progressivamente in un’unica voce.